Comandante Diavolo!

“Io mi considero l’uomo più fortunato che io abbia mai visto”

Così si definì nel corso di un’intervista rilasciata in tarda età l’ex Tenente Amedeo Guillet, ufficiale, guerrigliero, agente segreto e diplomatico, uno degli ultimi eroi italiani la cui storia purtroppo è stata quasi del tutto dimenticata dal grande pubblico.

Amedeo Guillet nel 1935 in alta uniforme delle Guide.

Quest’uomo straordinario venne al mondo a Piacenza il 7 febbraio 1909 all’interno di una famiglia piemontese di origine savoiarda dalle solide tradizioni militari i cui esponenti erano dediti da generazioni al mestiere delle armi al servizio dei Savoia. Suo padre, il barone Alfredo Guillet, era stato colonnello dei Reali Carabinieri durante la prima guerra mondiale mentre il di lui fratello, omonimo zio del nostro protagonista, era Generale di Corpo d’armata nonché appassionato matematico, divenuto nel 1939 Senatore del Regno.

Amedeo ovviamente non fu da meno e come il fratello Giuseppe – divenuto ufficiale d’artiglieria – intraprese la carriera militare venendo ammesso giovanissimo nel 1928 all’accademia militare di Modena dalla quale uscì tre anni dopo con il grado di sottotenente di Cavalleria del Regio Esercito. Assegnato al reggimento “Cavalleggeri di Monferrato”, dimostrò ben presto spiccate qualità militari e, soprattutto, di cavallerizzo. Successivamente assegnato al Reggimento “Cavalleggeri Guide”, fu tra i primi ufficiali della cavalleria italiana ad applicare rigorosamente il metodo di equitazione naturale del capitano Federico Caprilli. Fu allora che le sue abilità equestri Amedeo fu selezionato tra i quattro membri della squadra di equitazione che avrebbe dovuto rappresentare l’Italia ai Giochi dell’XI Olimpiade in programma per l’estate del 1936 a Berlino.

Amedeo nel 1934 ai tempi delle sue competizioni equestri.

Amedeo tuttavia alle Olimpiadi non arriverà mai. Nell’ottobre del 1935 infatti Mussolini annunciò l’inizio dell’invasione dell’Etiopia e a quel punto il Tenente Guillet non ebbe dubbi: come ufficiale dell’esercito il suo primo dovere era servire la Patria in armi e la guerra doveva avere la priorità sulle Olimpiadi. Amedeo Guillet non era fascista ma fu ugualmente spinto a questa decisione dal proprio spirito patriottico e dalla fedeltà a Casa Savoia. In seguito al trasferimento in Libia, ad Amedeo fu assegnato il comando di un reparto di 200 Spahis, i cavalleggeri coloniali arruolati in Nordafrica dagli italiani. Per poter interagire con i propri subordinati cominciò allora a studiare la lingua araba, la cui conoscenza gli sarebbe stata assai utile in seguito.

Alla testa dei suoi cavalieri, Amedeo Guillet prese parte alle operazioni nel Corno d’Africa venendo ferito ad una mano la vigilia di Natale del 1935 durante la battaglia di Selaclaclà. Terminato il conflitto, il 5 maggio 1936 a Tripoli fu insignito di una medaglia di bronzo dal Maresciallo d’Italia Italo Balbo, Governatore della Libia e già quadrumviro della Marcia su Roma. L’esperienza in campo equestre di Amedeo fece si che nel marzo 1937 egli venisse scelto per organizzare la cerimonia nel corso della quale il Duce durante la sua visita in Libia sarebbe stato proclamato “Difensore dell’Islam”. Amedeo provvide pertanto a scegliere, acquistare e addestrare i cavalli che sarebbero stati montati da Mussolini e gli altri gerarchi, alcuni dei quali erano del tutto digiuni di equitazione.

Etiopia, 1935: Amedeo alla testa degli Spahis di Libia durante una sosta. Alle loro spalle si vedono le colonne della fanteria italiana.

Rientrato in Italia dopo i successi africani Amedeo trascorse un periodo di riposo presso la residenza napoletana dello zio Rodolfo Gandolfo – fratello di sua madre – dove si intrattenne con le sue tre cugine. Con la più giovane di queste, la diciottenne Beatrice, detta Bice, fu un autentico colpo di fulmine. Ottenuto l’assenso dei genitori della ragazza, Amedeo avrebbe voluto sposare Bice il prima possibile se non ché poco tempo dopo il governo fascista emanò alcune rigide disposizioni normative secondo le quali gli ufficiali dell’esercito e i pubblici funzionari avrebbero potuto beneficiare di avanzamenti di carriera soltanto se ammogliati. Per Amedeo queste norme erano umilianti. Non volendo dare adito a maldicenze secondo cui il suo matrimonio fosse dettato unicamente dalla volontà di ottenere la tanto sospirata promozione a capitano, Amedeo decise di rimandare le nozze. Il grado, decise, se lo sarebbe conquistato sul campo di battaglia grazie al suo coraggio e alle sue capacità di comando.

Etiopia, estate 1940: il Generale Luigi Frusci passa in rassegna il Gruppo Bande Ahmara. Accanto a lui Amedeo a cavallo.

Così nell’agosto del 1937 il Tenente Guillet accettò la proposta del Generale Luigi Frusci di seguirlo in Spagna, dove fin dall’estate dell’anno precedente infuriava la guerra civile tra i sostenitori del legittimo governo repubblicano e gli insorti nazionalisti guidati dal Generalissimo Francisco Franco. L’intervento italiano nel conflitto non era stato preceduto da alcuna formale dichiarazione di guerra da parte del governo di Roma a quello di Madrid. I militari inviati da Mussolini in Spagna – 70 mila soldati appoggiati da centinaia di aerei, mezzi corazzati e pezzi d’artiglieria – furono pertanto fatti passare per “volontari” e dotati di uniformi prive di mostrine e altri segni di riconoscimento.

Amedeo giunse a Cadice in aereo fornito di documenti falsi che gli attribuivano il nome di “Alonso Gracioso” e da lì fu trasferito nel nord del Paese, dove si trovava il quartier generale delle divisione “Fiamme Nere” cui era stato aggregato. In Spagna Amedeo si distinse dapprima alla testa di un raggruppamento corazzato e poi alla testa di un tabor di cavalleria marocchina partecipando alle battaglie di Santander e Teruel. Tuttavia, ancora una volta, si vide negata la promozione.

Amedeo nel 1939 insieme a un importante capo etiope con il copricapo di criniera di leone.

Deluso e amareggiato Amedeo lasciò la Spagna nel marzo del 1938 per fare ritorno in patria. Da qui fu nuovamente trasferito in Libia al comando del VII Battaglione Savari, unità di cavalleria coloniale. Costretto a un periodo di ricovero in ospedale a Tripoli a causa di dolori procuratigli dalla vecchia ferita alla mano. Proprio durante la sua degenza Guillet conobbe una giovane infermiera libica di religione ebraica, Mariam Banin, la cui sorella era stata costretta a interrompere gli studi e rinunciare al suo sogno di frequentare la facoltà di medicina a causa dell’entrata in vigore delle leggi razziali volute dal governo fascista. Amedeo finì con l’interessarsi al suo caso e non esitò a rivolgersi direttamente al suo vecchio amico Italo Balbo per aiutare la ragazza, che alla fine ottenne di poter sostenere gli esami presso la scuola italiana.

Una volta ristabilitosi Amedeo partì alla volta del Corno d’Africa, dove ritrovò il generale Frusci, divenuto governatore delle regioni di Ahmara e Gondar, due dei punti più caldi della perdurante resistenza etiope. Quasi a volersi sdebitare della mancata promozione in Spagna, Frusci ottenne per Amedeo la nomina a comandante del Gruppo Bande Amhara, un’unità militare multinazionale, forte di 1700 uomini di origine etiope, eritrea e yemenita inquadrati da ufficiali italiani. L’unità aveva la consistenza di un reggimento e avrebbe dovuto essere comandata da un Colonnello, mentre lui era solo tenente.

Cartolina rappresentante il gruppo squadroni dell’Amara.

Il compito assegnato al Gruppo di Guillet era di operare, in massima autonomia e libertà d’azione, contro il nemico che infestava la regione nord-occidentale dell’Eritrea. Nel 1939, durante un combattimento contro la guerriglia nella regione di Dougur Dubà, il tenente Guillet costrinse il nemico ad uno scontro in campo aperto. Durante una delle cariche, il suo cavallo venne colpito ed ucciso. Immediatamente, Guillet ordinò al suo attendente di dargliene un altro. Quando anche il secondo quadrupede fu colpito, trovandosi appiedato, si mise ai comandi di una mitragliatrice e sparò agli ultimi nemici rimasti.

Questa azione gli valse una medaglia d’argento da parte delle autorità militari italiane e il soprannome Commundàr es Sciaitan – Comandante Diavolo – assegnatogli dai suoi ascari, convinti che godesse di una sorta di immortalità e colpiti dalla sua capacità di immedesimarsi appieno nei costumi bellici delle popolazioni dell’Africa orientale.

l’illuminato stile di comando di Guillet diede i suoi frutti: nella sua unità non si verificò mai un caso di diserzione, né di contrasto tra i soldati indigeni, nonostante la loro appartenenza a differenti etnie e fedi religiose. Permise ai suoi uomini, di portare sempre con sè le famiglie – come da tradizione locale – ed egli stesso ebbe una concubina eritrea, Khadija, che lo seguì durante tutto il suo periodo di servizio in Eritrea – tutto ciò in barba alle disposizioni volte ad impedire il cosiddetto “madamato”, ovvero le relazioni tra uomini italiani e donne indigene. Anche nei confronti degli avversari catturati e delle popolazioni locali con cui entrava in contatto durante le attività operative tenne sempre un comportamento rispettoso e leale, da gentiluomo d’altri tempi.

Khadija fotografata da Amedeo prima della seconda guerra mondiale.

Intanto però la situazione in Europa andava facendosi sempre più difficile. In seguito all’invasione della Polonia, cominciata il 1° settembre 1939, Francia e Gran Bretagna dichiararono guerra alla Germania. Benché alleata di quest’ultima e vincolata a intervenire nel conflitto al suo fianco in virtù del “Patto d’acciaio”, l’Italia di Mussolini scelse di restare, almeno per il momento neutrale. Tuttavia tanto in patria quanto nelle colonie apparve chiaro fin da subito che l’ingresso nel conflitto era solo questione di tempo. E così, il 10 giugno 1940, il Duce annunciò all’Italia e al mondo l’avvenuta dichiarazione di guerra italiana a Francia e Gran Bretagna. Cominciava anche per noi la seconda guerra mondiale.

La situazione dell’Impero in Africa orientale apparve fin da subito disperata: i possedimenti italiani erano circondati da quelli britannici e impossibilitati a ricevere qualsivoglia aiuto o rifornimento dalla madrepatria in quanto il canale di Suez era a sua volta sotto controllo inglese. Inoltre, nonostante fosse passati quattro anni dalla conquista dell’Etiopia, la resistenza abissina non era stata ancora piegata e intere regioni erano di fatto sotto il controllo dei guerriglieri fedeli al Negus.

Amedeo Guillet alla guida del Gruppo Bande Amhara nel 1940.

Sulla carta l’esercito italiano in Africa Orientale – 90 mila soldati nazionali e 20 mila coloniali – poteva contare su forze decisamente superiori a quelle nemiche. Tuttavia le nostre forze armate erano scarsamente motorizzate mentre l’aviazione disponeva di appena 178 apparecchi in gran parte obsoleti. Limitate erano inoltre le scorte di pneumatici e carburante. L’iniziale offensiva che portò alla conquista della Somalia britannica e della cittadina di Cassala, in Sudan, consumò quindi risorse importanti senza produrre alcun risultato significativo dal punto di vista strategico.

Una volta fatte affluire truppe fresche dall’India e delle altre colonie africane – tutte modernamente armate e completamente motorizzate – nel febbraio 1941 il comando britannico diede il via alla controffensiva sferrando un doppio attacco a Eritrea e Somalia, conquistando con relativa facilità entrambi i territori per poi convergere verso le zone centrali dell’Etiopia.

In nero le avanzate italiane iniziali, in rosso le avanzate britanniche durante l’offensiva combinata fino alla resa di Gondar.

La sera del 20 gennaio 1941, il tenente Guillet rientrò al forte di Cheru dopo una lunga attività di pattugliamento del territorio, ma gli venne ordinato di ripartire immediatamente per affrontare i britannici della Gazelle Force che minacciavano di accerchiare migliaia di soldati italiani in ritirata verso Agordat. Il compito attribuitogli era di ritardare di almeno 24 ore la manovra dell’avversario, costringendolo a fermarsi nella piana tra Aicotà e Barentù. All’alba del 21 gennaio, dopo una furtiva manovra di aggiramento, il Gruppo di Guillet caricò il nemico alle spalle, creando scompiglio tra i ranghi anglo-indiani. Si trattò di uno spettacolo impressionante e, al contempo, incredibile: armati di sole spade, pistole e bombe a mano, Guillet e i suoi uomini attaccarono le colonne blindate britanniche.

Dopo essere passato illeso tra le sbalordite truppe avversarie, il Gruppo tornò sulle posizioni iniziali per caricare nuovamente. Questo diede tempo ai britannici di riorganizzarsi e di sparare ad alzo zero verso i cavalieri di nuovo all’attacco. In particolare, alcune pattuglie blindate britanniche iniziarono a dirigersi verso il fianco e alle spalle dello schieramento di Guillet, minacciando di accerchiare il manipolo di soldati a cavallo. Il tenente Renato Togni, Vicecomandante del Gruppo, effettuò allora una mortale “carica di alleggerimento” con il suo plotone di trenta indigeni, per consentire al grosso del Gruppo di sganciarsi indenne. All’ordine di “Caricat!” il plotone, con Togni in testa, si gettò su una colonna di carri “Matilda”, che aprirono il fuoco falciando mortalmente tutti gli uomini e i cavalli. Quel sacrificio permise, tuttavia, al resto delle truppe di Guillet di sganciarsi conseguendo appieno l’obiettivo: le truppe italiane in ritirata erano al sicuro dentro le fortificazioni di Agordat.

Il Tenente Renato Togni in sella al cavallo su cui venne ucciso il 21 gennaio 1941.

Amedeo pagò un alto prezzo per questa battaglia: 800 tra morti e feriti e la perdita del suo grande amico Togni. Fu quella l’ultima carica di cavalleria nella storia militare dell’Africa. Guillet partecipò, alla testa di quello che rimaneva del suo Gruppo ormai appiedato, anche alle battaglie di Cochen e Teclesan, prima della caduta di Asmara avvenuta il 1º aprile 1941. Intanto, dopo aver preso la Somalia, le forze britanniche del fronte sud entrarono ad Addis Abeba il 6 aprile 1941 e successivamente si concentrarono assieme a quelle del fronte nord nell’eliminare gli ultimi centri della resistenza italiana.

Persa Asmara, Guillet capì che l’unico modo per aiutare le truppe italiane operanti in Libia era quello di tenere impegnati quanti più britannici possibile in Eritrea. Spogliatosi dell’uniforme italiana e assunta definitivamente l’identità del Comandante Diavolo, radunò attorno a sé un centinaio di suoi fedelissimi soldati indigeni e con questi iniziò una durissima guerriglia contro le truppe inglesi. La sua leggenda crebbe a dismisura al punto che le autorità britanniche scatenarono un’imponente “caccia all’uomo”, mettendogli alle costole le migliori risorse di intelligence disponibili. Fu fissata una taglia di oltre mille sterline d’oro, ma Guillet non fu mai tradito

La guerriglia dell’ormai capitano Guillet costò cara ai britannici: per quasi otto mesi egli assaltò e depredò depositi, convogli ferroviari ed avamposti, fece saltare ponti e gallerie rendendo insicura ogni via di comunicazione. Tuttavia, verso la fine di ottobre 1941, i suoi ranghi si erano troppo assottigliati e lo scopo della sua missione non era più realisticamente perseguibile. Ferito e tormentato dalla malaria, Amedeo radunò quello che restava della sua banda, ringraziò i suoi fedelissimi promettendo loro che l’Italia avrebbe saputo ricompensarli adeguatamente e si diede alla macchia.

Amedeo nei panni di Ahmed Abdallah al Redai fotografato dall’amico Orlando Rizzi nella tenuta di questi a Dorfù.

Si stabilì alla periferia di Massaua dove assunse la falsa identità di Ahmed Abdallah al Redai, lavoratore di origini yemenite impossibilitato a far ritorno in patria a causa della guerra. Grazie alla perfetta conoscenza della lingua e dei costumi locali Amedeo si trasformò in un autentico arabo, arrivando persino ad abbracciare la fede islamica. Per racimolare il denaro necessario per pagarsi la traversata verso lo Yemen svolse i lavori più umili tra cui quello di acquaiolo, guardiano notturno e scaricatore di porto. Seguito dal fido Daifallah, suo ex attendente, tentò una prima volta di attraversare il Mar Rosso su un sambuco di contrabbandieri, ma venne depredato, buttato in mare ed abbandonato nel deserto della Dancalia, dove i due vennero picchiati e rapinati da un gruppo di pastori nomadi.

Guillet e Daifallah si salvarono soltanto grazie all’aiuto provvidenziale di un cammelliere che li rifocillò ospitandoli per qualche tempo presso la sua dimora. Tornati a Massaua, i due riuscirono ad ottenere finalmente un passaggio regolare per lo Yemen. Giunto nel porto di Hodeida, venne arrestato e rinchiuso in prigione perché sospettato di essere una spia al soldo dei britannici. Quando questi ultimi chiesero l’estradizione dell’italiano all’Imam Yahya, sovrano dello Yemen, questi si incuriosì e volle fare la conoscenza di questo curioso personaggio. Dopo aver appreso dallo stesso Amedeo tutte le sue peripezie, impressionato dal valore e dal coraggio del suo ospite, l’Imam lo nominò dapprima suo palafreniere e poi, colpito dalle qualità ippiche di Amedeo, lo elevò al rango di “Gran Maniscalco di Corte” e istruttore delle guardie a cavallo.

Fotografia di Ahmad ibn Yahya, Imam zaydita dello Yemen, regalata al caro amico Amedeo Guillet “Ahmed Abdallah” prima che questi lasciasse lo Yemen nel 1960.

Amedeo riuscì a fare finalmente rientro in Italia nell’estate del 1943. Tornato a Massaua nel giugno di quello stesso anno beffò ancora una volta gli inglesi imbarcandosi su una nave della Croce Rossa fingendosi un civile italiano divenuto pazzo durante la guerra. Dopo circa due mesi di navigazione sbarcò finalmente a Taranto dopo cinque lunghi anni di assenza.

Era il 2 settembre del 1943 e l’Italia si trovava sull’orlo del caos: gli Alleati anglo-americani avevano dato inizio alla conquista della Penisola sbarcando in Sicilia il 10 luglio e di lì si apprestavano a mettere piede sul continente. Mussolini era stato praticamente sfiduciato dai gerarchi nel corso di una tumultuosa riunione del Gran Consiglio del fascismo tenutasi nella notte tra il 25 e il 26 luglio. Dopo essere stato costretto a dare le dimissioni l’ormai ex Duce era stato tratto in arresto dai Carabinieri per ordine del Re Vittorio Emanuele III e sostituito dal Maresciallo Pietro Badoglio. Il nuovo governo italiano aveva subito intavolato trattative segrete con gli Alleati che si conclusero con la firma, il 3 settembre 1943, dell’armistizio di Cassibile, reso pubblico cinque giorni dopo. L’8 settembre Amedeo si trovava a Roma, abbandonata in tutta fretta dal Re e da Badoglio e quasi subito occupata dalle forze naziste.

Come dovette amaramente constatare lo stesso Amedeo l’Italia pareva ripiombata in una condizione simile a quella precedente il Risorgimento e l’Unità: divenuta campo di battaglia per eserciti stranieri, la Penisola si trovava divisa in due Stati in guerra fra loro: mentre al Sud, sotto la protezione alleata, sopravvisse il vecchio stato monarchico, a Nord Mussolini, liberato dalla prigionia dai tedeschi, dava vita alla cosiddetta Repubblica Sociale Italiana, uno stato fantoccio del Reich nazista appoggiato dai fascisti più irriducibili.

Amedeo Guillet con sua moglie Bice ad un ricevimento a Il Cairo nel 1953.

Amedeo riuscì rocambolescamente ad attraversare la Linea Gustav – il fronte che divideva Alleati e nazifascisti – giungendo a Brindisi, dove si mise a disposizione del Re. Promosso maggiore per meriti di guerra, continuò ad operare nel Servizio Informazioni del ricostituito Esercito Italiano per poi svolgere, nel convulso periodo successivo al 25 aprile 1945, l’incarico di agente segreto. In tale veste fu incaricato del recupero della corona imperiale del Negus d’Etiopia, sottraendola furtivamente alla Brigata partigiana “Garibaldi” che, a sua volta, l’aveva confiscata alla Repubblica di Salò: essa fu successivamente restituita ad Haile Selassie e rappresentò il primo passo verso la riappacificazione fra il nostro Paese e l’Etiopia.

Intanto, ritrovata l’amata Bice che non aveva mia smesso di sperare nel suo ritorno, Amedeo poté coronare il suo sogno d’amore sposando l’amata il 21 settembre 1944 a Napoli con una cerimonia che lo stesso Guillet definì dalla “semplicità francescana” e nel corso della quale non mancò di suonare la sirena dell’allarme antiaereo. Dal matrimonio sarebbero nati due figli: Paolo Maria nato a Roma il 25 luglio 1945 e Alfredo nato a Roma il 18 gennaio 1948.

Alla fine delle ostilità, dopo la sconfitta della monarchia e la vittoria della Repubblica nel Referendum del 2 giugno 1946, Guillet, fedele al proprio giuramento di militare verso i Savoia, rassegnò le proprie dimissioni dall’Esercito Italiano, congedandosi a 37 anni con il grado di tenente colonnello. Presentandosi al nuovo Re Umberto II, Amedeo gli manifestò persino la sua intenzione di abbandonare il Paese, venendo tuttavia bonariamente redarguito dal sovrano che gli ricordò come, prima ancora della Corona, venivano l’Italia e la sua indipendenza. Re Umberto gli disse: “Noi passiamo, l’Italia resta”.

Amedeo Guillet, Ambasciatore d’Italia in Marocco, accompagna il Ministro degli Esteri Aldo Moro durante un’ispezione della guardia d’onore nel 1969.

Deciso a servire ancora il proprio Paese sia pure non più in uniforme, nella seconda metà degli Anni Quaranta Amedeo si laureò in scienze politiche e nel 1947 si presentò al pubblico concorso per la carriera diplomatica, rifiutando per spirito di correttezza i trattamenti di favore offertigli in virtù dei suoi trascorsi. Il suo primo incarico fu quello di Segretario di legazione presso l’Ambasciata d’Italia al Cairo, in Egitto. Da qui, nel 1956, fu nominato incaricato d’affari presso la nostra rappresentanza diplomatica nello Yemen. Giunto nel Regno zaydita fu accolto con calore dal suo vecchio amico, l’Imam Ahmad ibn Yahya, che gli disse “Ahmed Abdallah finalmente sei tornato a casa!”.

Nel Anni Sessanta Amedeo fu promosso ambasciatore, dapprima in Giordania – dove divenne amico intimo del Re Ḥusayn – e poi in Marocco. Proprio nel Paese nordafricano la sua esperienza di militare gli tornò utile quando, nel corso di un ricevimento, si trovò coinvolto in una sparatoria causata da un tentativo di colpo di Stato, riuscendo a salvare alcuni rappresentanti diplomatici rimasti sotto il fuoco. Per aver contribuito al salvataggio del proprio ambasciatore, la Germania Ovest gli concesse la Gran Croce con stella e striscia dell’Ordine al Merito della Repubblica.

Amedeo Guillet ricevuto al palazzo del Quirinale dal presidente della Repubblica Italiana, Giuseppe Saragat nel 1971.

Nel 1971 fu infine inviato, sempre come ambasciatore, in India, entrando ben presto nel ristrettissimo entourage dei confidenti del Primo ministro Indira Gandhi. Quattro anni dopo concluse la sua carriera diplomatica con il collocamento a riposo per limiti d’età.

Negli anni seguenti Amedeo continuò a dedicarsi con passione all’allevamento dei cavalli e, ancora in età ormai avanzata, all’equitazione. Intanto, nel 1991, restò vedovo dell’amata moglie Bice. Nel 2000, al seguito dello scrittore Sebastian O’Kelly, si recò un’ultima volta in Eritrea nei luoghi che lo avevano visto giovane Tenente alla testa delle Gruppo Bande Amhara. Venne ricevuto all’Asmara dal Presidente della Repubblica eritrea con gli onori riservati ad un Capo di Stato. Nello stesso anno gli venne conferita la Gran Croce dell’Ordine Militare d’Italia, massima onorificenza militare italiana e la cittadinanza onoraria dalla città di Capua che l’anziano Comandante Diavolo definì “altamente ambita”.

Amedeo Guillet si è spento nella sua abitazione romana il 16 giugno 2010, alla veneranda età di 101 anni. Le sue ceneri riposano nella tomba di famiglia al fianco della moglie Bice ed ai suoi avi trasferitisi, dopo l’annessione della Savoia alla Francia, nella città di Capua.

Bibliografia:

  • Sebastian O’Kelly – Vita, avventure e amori di Amedeo Guillet, un eroe italiano in Africa orientale
  • Vittorio San Segre – La guerra privata del Tenente Guillet. La resistenza italiana in Eritrea durante la seconda guerra mondiale

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