Le guerre giudaiche

Chiunque abbia visitato l’antico foro romano – nel cuore dell’Urbe – e sia passato sotto l’arco di Tito, avrà certamente notato un bassorilievo raffigurante un gruppo di uomini intenti a trasportare un grande candelabro a sette braccia -la Menorah – simbolo della religione ebraica. Il monumento in effetti fu innalzato per celebrare la vittoriosa repressione della rivolta giudaica scoppiata nel 66 d.C. portata a termine dal futuro Imperatore Vespasiano e da suo figlio e successore Tito e culminata con l’assedio di Gerusalemme e la distruzione del Tempio.

I domini romani orientali (in rosa) ed i regni clienti (in giallo), alleati di Roma nel 63 a.C., al termine delle guerre mitridatiche di Gneo Pompeo Magno.

I rapporti tra l’Urbe e il popolo ebraico datavano almeno dal 161 a.C. quando il Senato romano decise di concedere la propria amicizia agli insorti guidato da Giuda Maccabeo contro il dominio del sovrano seleucide Antioco IV Epifane. Per quanto tale atto non si tradusse in un intervento diretto delle forze romane a sostegno dei ribelli, ciò ebbe l’effetto di far apparire la Res Publica agli occhi degli ebrei come uno stato potente e virtuoso, pronto a sostenere quanti ne chiedessero l’aiuto.

Meno di cent’anni dopo tuttavia i rapporti tra la Res Publica e il mondo ebraico erano del tutto cambiati: al termine della Terza Guerra Mitridatica (74-63 a.C.) il Regno di Giudea frattanto sorto in seguito alla vittoriosa lotta di liberazione contro i Seleucidi e retto dalla dinastia degli Asmonei entrò definitivamente nell’orbita romana. Occupato da Gneo Pompeo Magno, il regno venne affidato a Giovanni Ircano II (r. 67-66 a.C. e 47-40 a.C.), il quale ricopriva contemporaneamente la carica di Sommo Sacerdote.

Erode il Grande, sovrano di Giudea tra il 37 e il 4 a.C.

Successivamente, dopo la breve parentesi di Antigono II Asmoneo (r. 40-37 a.C.) sostenuto dai Parti, il trono passò all’energico Erode Ascalonita, meglio noto come Erode il Grande, il quale non apparteneva alla dinastia asmonea essendo figlio di un principe idumeo, originario cioè di una regione, l’Idumea appunto, situata a sud della Giudea e convertita forzatamente all’ebraismo soltanto pochi decenni prima, ai tempi di Giovanni Ircano I.

Erode rimase sul trono per oltre trent’anni, sino alla morte, avvenuta intorno al 4 a.C. circa. Principe energico ai limiti della spietatezza – non esitò a mandare a morte con l’accusa di tradimento dapprima i due figli Alessandro e Aristobulo e poi il primogenito ed erede designato Antipatro – seppe conquistarsi la fiducia dapprima di Marco Antonio e poi di Ottaviano, ottenendo da entrambi concessioni territoriali tali da porlo alla testa di un regno dalle dimensioni paragonabili a quello degli Asmonei.

Mappa del Regno di Giudea dal 37 a.C. alla morte di Erode il Grande nel 4 a.C.

Pur comportandosi a tutti gli effetti come un sovrano ellenistico – venendo per questo avversato dalla casta sacerdotale che non poteva tollerare le sue origini idumee – Erode rispettò almeno formalmente le tradizioni religiose ebraiche, ordinando l’ampliamento e il rifacimento del Tempio di Gerusalemme. Infaticabile costruttore, il sovrano fece edificare le città di Cesarea marittima, di Sebaste e le possenti fortezze di Masada, Macheronte e l’Herodion.

Alla morte di Erode il Grande nel 4 a.C., il Regno di Giudea, già cliente di Roma, fu diviso tra i suoi tre figli: Ad Archelao spettarono la Giudea, la Samaria e l’Idumea mentre ai fratelli Erode Antipa e Filippo- investiti del titolo di tetrarchi – toccarono rispettivamente regioni di Galilea e Perea e quelle di Gaulanitide, Traconitide, Batanea ed Auranitide. Nel 6 d.C., Augusto, accogliendo le richieste dei Giudei che ne denunciavano il malgoverno, decise di esiliare Archelao trasformando il suo territorio in una prefettura della provincia di Siria, governata un praefectus di rango equestre.

Ricostruzione del Tempio di Gerusalemme in seguito agli interventi edilizi ordinati da Erode.

Dopo una breve parentesi tra il 39 e il 44 d.C. costituita dal regno di Erode Agrippa, nipote di Erode il Grande, per ordine dell’Imperatore Claudio la Giudea fu nuovamente e definitivamente reintegrata nel dominio diretto di Roma attraverso la nomina di un Procurator Augusti, Cuspio Fado, che resse la provincia fino al 46 quando venne sostituito da Tiberio Giulio Alessandro, rinnegato ebreo di Alessandria d’Egitto. Come gli eventi successivi avrebbero dimostrato, la definitiva esautorazione della dinastia indigena costituì un grave errore in quanto venne meno un importante elemento di mediazione tra il popolo ebraico e l’autorità romana.

La vera forza di Roma che aveva permesso all’Urbe di diventare caput mundi di un impero non era costituita dalle sue legioni – che infatti subirono nel corso dei secoli sconfitte talvolta anche schiaccianti – quanto piuttosto dalla capacità di assorbire le popolazioni sottomesse cooptandone le classi dirigenti all’interno del proprio sistema di potere. Tale processo, inizialmente applicato alle aristocrazie dell’Italia, era stato progressivamente “clonato” con successo nelle altre province. In questo senso la Giudea rappresentò un fallimento. Dopo la morte di Erode Roma aveva trovato un modus vivendi con le élite ebraiche rappresentate dal sinedrio e dalla casta sacerdotale. In cambio della rinuncia a qualsiasi interferenza in politica estera e nel campo della giustizia penale – basti pensare che la condanna di Gesù fu emessa dal procuratore Ponzio Pilato – il sinedrio aveva ottenuto dal potere romano sostanziale mano libera negli affari religiosi e di politica interna.

Ecce Homo, dipinto di Antonio Ciseri, raffigurante Ponzio Pilato che presenta Gesù flagellato alla gente di Gerusalemme. La maggior parte dei procuratori romani in Giudea si distinse per ottusità e brutalità.

La politica conciliante dei romani andò tuttavia a cozzare con l’opposizione di un popolo periodicamente infiammato dalla comparsa dei cosiddetti “profeti dei segni” – tra cui è possibile annoverare lo stesso Gesù di Nazareth – alcuni pacifici altri dichiaratamente violenti. Il mondo ebraico all’inizio del I secolo d.C. costituiva una realtà variegata, al punto da indurre taluni studiosi a parlare, se non di diversi Giudaismi, perlomeno di più correnti della stessa religione. Oltre ai Samaritani – comunità minoritaria disprezzata dalla maggioranza dei Giudei e additata come eretica – i principali gruppi erano: i sadducei – gli aristocratici conservatori tendenzialmente favorevoli ad una collaborazione con Roma – i farisei – caratterizzati da un accentuato rigorismo etico e uno scrupoloso formalismo nell’osservanza della Legge e della tradizione mosaica – e gli esseni, identificati con la comunità di Qumran, sul Mar Morto.

Gesù discute con un gruppo di farisei nei cortili del Tempio di Gerusalemme. Nei decenni iniziali del I secolo d.C. la polemica tra i vari gruppi ebraici era estremamente vivace.

La polemica tra i vari gruppi non era limitata all’ambito religioso ma si estendeva a quello politico. L’identità di nazione e di fede riuscì a mobilitare le masse contro l’occupazione romana e quelle classi dirigenti che l’appoggiavano. L’odio contro i dominatori, considerati impuri e idolatri, rinfocolato dalla tracotanza dei procuratori inviati da Roma, diede forza alle frazioni più estreme, quali ad esempio i cosiddetti “briganti” e soprattutto la setta degli zeloti, movimento sorto a partire dalla rivolta di Giuda il Galileo del 6 d.C. e che nel nome si richiamava allo zelo dei guerriglieri maccabei. Gli zeloti difendevano ferocemente i precetti della legge mosaica, così come anche lo stile di vita ebraico e il nazionalismo israelita. Loro obbiettivo ultimo era la costituzione di una teocrazia ebraica in Palestina da realizzarsi anche attraverso il ricorso alla lotta armata. I romani riconobbero sempre all’ebraismo il titolo di religio licita, religione consentita, ma inevitabilmente il principio professato dalle frange più estremiste secondo cui l’obbedienza anche politica fosse dovuto soltanto a Dio non poteva che condurre presto o tardi allo scontro aperto con l’impero.

Imboscata degli insorti ebrei ai danni delle truppe romane fra gli stretti vicoli di Gerusalemme.

La rivolta scoppiò infine nel 66 d.C. nel secondo anno del mandato del procuratore Gessio Floro, l’ultimo e anche il più detestato. Secondo lo storico ebreo Giuseppe Flavio – già comandante durante la rivolta del presidio di Iotapata in Galilea e in seguito passato al servizio dei romani – durante la Festa degli Azzimi di quello stesso anno Floro fu accusato di fronte al governatore della Siria Cestio Gallo di essersi macchiato di numerosi soprusi ai danni della popolazione e temendo di dover rispondere della sua condotta di fronte all’Imperatore avrebbe cercato di indurre gli ebrei alla ribellione esacerbandone ulteriormente gli animi.

Floro, alla presenza del governatore di Siria Gaio Cestio Gallo, dichiarò che erano stati i Giudei ad iniziare i disordini. Dopo la visita a Gerusalemme degli ispettori di Cestio, che diede ragione ai Giudei, la situazione sembrò distendersi, ma le frange ebraiche più radicali diedero inizio alla guerra occupando Masada, sterminandone la guarnigione romana, mentre  Eleazar ben Simon, sacerdote del Tempio, proibì di eseguire i consueti sacrifici in favore dei Romani e occupò il Tempio. Floro inviò duemila cavalieri a domare la rivolta, che si era estesa per tutta la città alta.

Una colonna di legionari sorpresa durante la marcia da un’imboscata tesa dai guerriglieri giudei.

I rivoltosi, guidati da un certo Menahem, incendiarono gli edifici romani, mentre il sommo sacerdote del Tempio, Anania, venne assassinato fuori città. A Cesarea Floro fece uccidere tutti i Giudei della città, circa diecimila, fatto che fece estendere la ribellione a tutta la Giudea settentrionale. Allo scopo di reprimere la ribellione Cestio Gallo decise di recarsi a Gerusalemme con le proprie truppe ma non fu in grado di riprendere la città. Fu allora che, nel corso di un ripiegamento, cadde in un’imboscata tesagli da Eleazar ben Simon a Bethoron nel corso della quale la Legio XII Fulminata fu quasi interamente massacrata.

La guerriglia messa in atto dai combattenti giudei si rivelò talmente devastante da poter essere considerata come la peggiore minaccia mai affrontata dai legionari nei primi due secoli dell’impero. I guerriglieri ebrei si dimostrarono ben più temibili dei catafratti e degli arcieri a cavallo partici, contro i quali, nei decenni successivi alla disfatta di Carre dei 53 a.C., Roma seppe adottare le opportune contromisure in termini di tattica e di armamento fino a porre il nemico persiano sulla difensiva.

Combattimento fra la cavalleria romana e gli insorti ebraici. Questi ultimi si dimostrarono l’avversario più ostico per le legioni dislocate nel Medio Oriente.

Un’altra particolarità della lotta intrapresa dai giudei contro Roma fu che, a differenza di quanto accaduto precedentemente, nel corso di questa guerra non emerse un capo carismatico che “creò” un popolo unificandolo in nome dell’opposizione a Roma – come nel caso di Vercingetorige in Gallia, di Viriato in Hispania o di Boadicea in Britannia – ma anzi semmai fu vero il contrario. Fu infatti dalla nazione – e probabilmente quella ebraica fu l’unica in questo senso in tutto il mondo antico – che continuarono a levarsi capi popolo tutti estremamente abili e coraggiosi.

A quel punto Nerone decise di delegare il compito di reprimere la rivolta al generale Tito Flavio Vespasiano. Questi all’epoca si trovava in esilio essendo caduto in disgrazia poiché aveva osato addormentarsi mentre l’Imperatore – che come ben noto si riteneva un grande artista -declamava i suoi noiosissimi versi.

Tito Flavio Vespasiano (9-79 d.C.) generale e in seguito imperatore di Roma dal 69 d.C.

Il nuovo comandante scelse di non investire direttamente Gerusalemme ma di isolarla ripristinando il controllo romano sulla Giudea. Per conseguire questo risultato Vespasiano aveva a disposizione tre legioni a ranghi completi – V Macedonia, X Fretensis e XV Apollinaris – 23 coorti ausiliarie e 6 alae di cavalleria oltre ai contingenti forniti dai Re clienti di Roma per un totale di 60 mila uomini.

Il primo banco di prova per Vespasiano – coadiuvato dal figlio maggiore Tito – fu l’assedio della piazzaforte di Iotapata in Galilea, che cadde al termine di un assedio durato quarantasette giorni Una volta fatta irruzione in città o legionari si abbandonarono al massacro degli abitanti riducendo in schiavitù i superstiti. Tra i prigionieri vi fu anche il comandante giudeo Giuseppe ben Mattia, che accettò di arrendersi dopo avere ricevuto la promessa che avrebbe avuta salva la vita. Condotto innanzi a Vespasiano, dopo che il comandante romano ebbe allontanato tutti gli altri tranne il figlio Tito e due amici, Giuseppe gli predisse l’ascesa al principato:

«Tu credi, Vespasiano, di aver catturato soltanto un prigioniero, mentre io sono qui per annunciarti un grandioso futuro. Se non avessi avuto l’incarico da Dio, conoscevo bene quale sorte spettava a me in qualità di comandante, secondo la legge dei Giudei: la morte. Tu vorresti inviarmi da Nerone? Per quale motivo? Quanto dureranno ancora Nerone ed i suoi successori, prima di te? Tu, o Vespasiano, sarai Cesare e imperatore, tu e tuo figlio. Fammi pure legare ancor più forte, ma custodiscimi per te stesso. […] e ti chiedo di essere punito con una prigionia ancor più rigorosa se sto mentendo, davanti a Dio.»

Pianta della città di Gerusalemme ai tempi dell’assedio romano (70 d.C.)

Sul momento Vespasiano rimase incredulo, pensando che Giuseppe lo stesse adulando per aver salva la vita, ma poi, sapendo che anche in altre circostanze Giuseppe aveva fatto predizioni esatte, fu indotto a ritenere che ciò che gli aveva annunciato fosse vero e lo trattenne presso di sé considerandolo più un ospite che un prigioniero.

Dopo un primo ed intenso anno di guerra, che aveva visto Vespasiano sottomettere tutti i territori giudaici a parte quelli intorno alla capitale Gerusalemme, dove peraltro era in corso una guerra civile tra la fazione degli Zeloti e coloro che stavano dalla parte dei sommi sacerdoti, il comandante romano si stava preparando ad attaccare la Città Santa. Fu allora che giunse la notizia che Nerone era morto suicida gettando l’Impero nella guerra civile. Tra il 68 e il 69 si avvicendarono ben quattro Imperatori, ciascuno acclamato dalle rispettive truppe: dapprima Galba, poi Otone, seguito da Vitellio ed infine lo stesso Vespasiano, appoggiato dalle legioni orientali e danubiane.

La distruzione del Tempio di Gerusalemme, da un dipinto di Francesco Hayez conservato a Venezia.

Alla fine di dicembre del 69 d.C. Vespasiano salpò da Alessandria d’Egitto diretto a Roma delegando al figlio maggiore Tito il compito di assediare Gerusalemme e porre fine alla sollevazione ebraica. Le operazioni militari cominciarono con l’arrivo della primavera del 70 d.C. poco dopo le celebrazioni della Pasqua ebraica, circostanza che aveva fatto affluire in città migliaia di pellegrini. Il sovraffollamento unito alla carestia provocata dal blocco attuato dalle truppe romane causarono migliaia di morti tra la popolazione mentre, implacabili, gli assedianti costruirono terrapieni per consentire alle loro macchine d’assedio di avvicinarsi alle mura della Città Santa.

Legionari asportano la Menorah – il candelabro sacro a sette braccia – dopo la conquista dell’area del Tempio.

Finalmente, tra agosto e settembre i soldati di Tito superarono la terza cinta muraria e attaccarono la Città Vecchia. Nel corso dell’assalto il Tempio, nel quale si erano asserragliati i difensori più irriducibili, fu dato alle fiamme. I legionari, esasperati da cinque mesi di assedio, si abbandonarono al saccheggio e alla strage mentre chi fu risparmiato venne venduto come schiavo.

Tito dispose, quindi, di radere al suolo l’intera città e il tempio, risparmiando solo tre torri, la Fasael, l’Ippico e la Mariamme, oltre al settore occidentale delle mura, che serviva per proteggere l’accampamento della legio X Fretensis che qui sarebbe rimasta come guarnigione permanente. Il Tempio fu smantellato e non sarebbe stato mai più ricostruito. A quel punto il comandante romano partì per Roma dove avrebbe celebrato il suo trionfo nel corso del quale furono esibiti alla plebe 700 prigionieri ebrei e gli arredi sacri trafugati dal Tempio di Gerusalemme.

L’acrocoro di Masada con i resti della fortezza che vide l’ultima resistenza ebraica. Sulla destra si può notare la rampa di accesso costruita dai romani.

L’epilogo della guerra giudaica giunse tre anni dopo, nel 73 d.C., con la caduta della fortezza di Masada, sul Mar Morto, nella quale si erano asserragliati circa mille zeloti al comando di Eleazar ben Yair. Alla vigilia dell’assalto decisivo da parte dei romani i ribelli preferirono suicidarsi in massa piuttosto che arrendersi. Con la conquista di Masada cadeva l’ultima roccaforte ebraica che aveva resistito anche dopo la caduta di Gerusalemme, ponendo fine alla prima guerra giudaica.

Nonostante la repressione gli ebrei tornarono a insorgere alcuni decenni dopo in quella che viene ricordata come la seconda guerra giudaica. La rivolta esplose tra il 115 e il 117 d.C., nel corso della campagna partica di Traiano, allorché l’avanzata romana giunse a lambire le comunità della Diaspora babilonese come quelle residenti a Nisibi e Seleucia al Tigri. Quasi contemporaneamente si sollevarono le comunità israelitiche della Cirenaica, dell’Egitto e di Cipro con una violenza tale che al termine della rivolta venne vietato agli ebrei di mettere piede sull’isola piena la morte.

Simon Bar Kokheba raffigurato in un bassorilievo sul palazzo moderno della Knesset – il Parlamento israeliano – a Gerusalemme.

Vent’anni dopo la decisione dell’Imperatore Adriano di vietare la pratica della circoncisione e i suoi progetti di rifondazione di Gerusalemme come colonia romana con il nome di Elia Capitolina portarono ad una nuova rivolta guidata dall’autoproclamato Messia Simon Bar Kokheba (“Figlio della Stella”). Nonostante l’enorme dispiegamento di truppe – ben dodici legioni – i ribelli diedero parecchio filo da torcere ai romani tanto che, nel suo messaggio al Senato, Adriano omise la consueta formula “Io e il mio esercito stiamo bene”.

L’insurrezione fu sedata soltanto dopo tre anni, nel 135 d.C. al termine di una strage di proporzioni terrificanti: secondo lo storico Cassio Dione vi perirono qualcosa come 580 mila giudei tra cui lo stesso Bar Kokheba. Adriano emanò una serie di provvedimenti nel tentativo estremo di sradicare completamente l’ebraismo – giudicato che la causa principale delle ripetute sollevazioni – vietando la circoncisione, l’osservanza della Legge mosaica e il calendario ebraico. La sconfitta nella guerra del 132-135 rappresentò per gli ebrei la fine di ogni aspirazione ad un proprio stato indipendente. Tale speranza risorse soltanto sul finire del XIX secolo con la nascita del movimento sionista che porterà nel 1948 alla proclamazione del moderno Stato di Israele.

Bibliografia:

  • Giovanni Brizzi, Roma. Potere e identità dalle origini alla nascita dell’impero cristiano
  • Giovanni Brizzi, 70 d.C. La conquista di Gerusalemme
  • Martin Goodman, Roma e Gerusalemme. Lo scontro delle civiltà antiche

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