Vincenzo I, il crepuscolo dei Gonzaga

La storia delle dinastie regnanti in Europa e nel mondo si dipana spesso entro corsi lunghi e vorticosi, pieni di luci e di ombre, di gloria e di polvere, coinvolgendo geografie e tempi diversi, andando a comporre nel loro insieme una parte di quella che noi definiamo la Grande Storia. Queste lunghe vicende umane si caratterizzano per il susseguirsi di momenti di luce a momenti di oscurità, non solo per l’operato dei singoli protagonisti, ma anche per la maggiore o minore conoscenza e approfondimento che di essi ha il pubblico, che rischia di lasciare nell’oblio comune momenti e personaggi di alta levatura, capaci di segnare il loro tempo in campi e modi diversi. Tale condizione si presenta frequentemente in un contesto variegato come quello della penisola italiana. La frammentazione dell’Italia ha favorito infatti la nascita di diversi potentati, capaci di rendere capitali anche centri storici che oggi possono sembrare luoghi di provincia. Questa condizione ha favorito la ricchezza monumentale e artistica di questi, legata alla volontà dei loro signori di sopperire alla debolezza politica e militare con un’oculata diplomazia ma anche con sfarzo e sviluppo culturale e artistico.

L’Italia durante l’egemonia degli Asburgo di Spagna (1559-1714).

Le lunghe vicende familiari di questi principi abbracciano un arco temporale molto lungo che, partendo dal pieno Medioevo e da origini a volte oscure e da contesti molto meno nobili di quelli che essi vantavano di avere, arriveranno ad interessare il XVIII e il XIX secolo, quando nuove monarchie andarono a semplificare questo complicato mosaico. Di questo ampio arco temporale sono di solito noti al grande pubblico solo alcuni momenti, legati a dipinti o edifici molto famosi, o a eventi che li rendono protagonisti della Storia Universale. Ci sono però contesti che, anche se meno sotto i riflettori, sono capaci di avere il loro peso. Un momento sicuramente da rimettere in luce è quello delle corti manieriste e barocche, tra ‘500 e ‘600. Un oblio dovuto soprattutto alla politica, legato alla posizione da loro assunta dopo la pace di Cateau Cambresis, quando la Spagna asburgica trasformò i signori italiani in membri della propria corte, amputandoli così di una gran parte della loro libertà di azione.

Tra gli esempi più importanti di questo periodo vi sono i principati nati e sviluppatisi nelle ricche città della pianura padana, retti da famiglie dai nomi altisonanti, come i Gonzaga di Mantova, gli Este di Ferrara, Modena e Reggio, i Farnese di Parma e Piacenza, senza contare le più piccole signorie come quella dei Da Correggio nell’omonima città o i Pico di Mirandola, nomi che rimandano al loro momento culminante, tra XV e XVI secolo, vale a dire l’epoca di Isabella e Alfonso d’Este, di Giulio Romano e dell’Officina ferrarese. Alcune di queste dinastie però sono sopravvissute molto a lungo, fino all’Illuminismo e all’Unità.

Un caso emblematico è proprio quello dei Gonzaga. La dinastia riuscì infatti a dare a Mantova non solo le figure monumentali di Ludovico III, Isabella d’Este e Federico II. Accanto ad esse ruotano altre figure meno note, ma che hanno lasciato la loro impronta sulla città, sul ducato e sulla vita del suo tempo. Tra di essi troneggia quella di Vincenzo I, duca di Mantova e del Monferrato tra il 1587 e il 1612. La figura di Vincenzo, attivo principe ereditario anche nel decennio precedente, è profondamente legata al suo tempo, soprattutto in quanto personifica a pieno le contraddizioni che lo caratterizzano.

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Vincenzo I Gonzaga, Duca di Mantova e del Monferrato tra il 1587 e il 1612.

Come principe manierista seppe sviluppare floridi rapporti con tutte le corti italiane ed europee contemporanee, sia diplomatici che matrimoniali, legati alla sua persona e a quella dei suoi eredi, garantendosi così una rete di buone relazioni e ammansendo chi avrebbe potuto nuocergli. Accanto alle sue ambascerie nelle Fiandre e in Tirolo, seguì una fitta rete nuziale attraverso i suoi matrimoni con Margherita Farnese, figlia del duca Alessandro, eroe delle Fiandre, e con Eleonora de’ Medici, figlia di Francesco I de’ Medici, o ancora quello per l’erede Francesco con Margherita di Savoia, figlia di Carlo Emanuele di Savoia, capace di rintuzzarne le mire sul Monferrato. Analogamente a livello europeo sostenne il matrimonio della figlia Margherita, data in sposa al duca di Lorena Enrico, imparentato con i Re di Francia e feudatario dell’imperatore, o creò le condizioni per quello per la seconda figlia Eleonora, sposata dopo la sua morte all’imperatore Ferdinando II, vero protagonista del primo Seicento. Una centralità che il duca di Mantova volle ritagliarsi anche presso la Spagna, attraverso suoi rappresentanti da Mantova e Genova, tra i quali il segretario Annibale Chieppo e il giovane pittore Pietro Paolo Rubens, che si attivò per poter ottenere per lui il Governatorato in Portogallo o nelle Fiandre o il Generalato del mare, sogno finito però nel nulla.

Le nozze tra il Duca Vincenzo Gonzaga ed Eleonora de’ Medici, celebrate nel 1587.

Anche se le apparenze potrebbero contraddirlo, il duca Vincenzo fu anche un buon comandante. Nell’arte militare il Duca di Mantova mescola, a interventi più direttamente bellici, aspetti più legati ad un’ideologia cavalleresca e crociata, influenzata dalla cultura cortese e dai poemi di Ariosto e Tasso. Al primo aspetto si connettono i grandi investimenti fatti per la difesa del ducato, come l’allargamento di Porto Catena, sul lago Inferiore di Mantova o quello, ancor più oneroso, per la costruzione della Cittadella di Casale Monferrato, di manzoniana memoria. Alla seconda si deve invece, in linea con esempi coevi, la creazione dell’Ordine cavalleresco del Redentore, fondato da Vincenzo nel 1608 nel nome del Sangue di Cristo, reliquia conservata nella basilica di Sant’Andrea. Apoteosi di questi due aspetti furono alcune azioni da lui compiute in Ungheria tra il 1595 e il 1601 a fianco di Rodolfo II. In essa, seppur il duca si fosse distinto anche in atti importanti, come l’assedio di Nagykanizsa, l’intervento del Gonzaga fu più ricordato per la sua titubanza e per i ricchi ricevimenti da lui offerti durante tutta la campagna.

Vincenzo fu infine un ambiguo amministratore del proprio dominio. Da una parte egli seppe valorizzare Casale e il Monferrato migliorando i rapporti tra la dinastia e la città, duramente colpita dagli interventi anti autonomisti del padre Guglielmo. Dall’altra iniziò un curioso processo di centralizzazione del principato mantovano, riassorbendo dai rami collaterali le realtà di Bozzolo e Gazzuolo e accordandosi per quella di Castel Goffredo. Tale iniziativa, che voleva riportare sotto il controllo del duca realtà sempre più autonome, sarà però monca e creerà un sempre più duraturo conflitto all’interno degli stessi Gonzaga. Interessante è anche il rapporto con gli ebrei. In linea con realtà vicine, come la Ferrara estense, Vincenzo accetterà solo parzialmente le trasformazioni repressive della fine del secolo, riconoscendo in particolare con un decreto che i bambini ebrei non potessero essere battezzati senza il consenso dei genitori e acconsentendo solo dopo una lunga resistenza all’istituzione del ghetto a Mantova nel 1610.

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Vincenzo Gonzaga favorì ampliamenti della reggia ducale, con la costruzione dell’Appartamento delle Metamorfosi e della Galleria della Mostra, il completamento della Cappella palatina di Santa Barbara.

Tali elementi, che possono tracciare un profilo ottimistico del duca, nascondono però un’ombra oscura. In particolare la politica rivolta alla spesa, alla pompa e allo sfarzo di Vincenzo, in diretto contrasto, come gli stessi individui, con quella oculata e risparmiatrice di Guglielmo I, portò a vistosi problemi di bilancio dello stato, costringendo lo stesso duca e i suoi figli a scelte dolorose. Tale abitudine, forse ineluttabile nell’ottica cortese della dominazione spagnola sull’Italia, che metteva al centro lo status, porterà ad interventi incisivi, tra i quali il famoso smembramento della quadreria gonzaghesca, la Celeste Galeria, i cui pezzi, messi sul mercato, furono acquistati in larga parte dal giovane re d’Inghilterra, Carlo I.

Oltre alla vita di governo, la centralità di Vincenzo si concentra anche nelle arti. Il caso del duca di Mantova è molto interessante per motivazioni diverse, segno di quanto questo personaggio apparentemente secondario abbia lasciato il segno. Un primo elemento fu l’ampiezza dei suoi interessi. Vincenzo infatti si aprì ad ambiti diversi, dall’architettura alle altre arti visive, dalla musica alla letteratura, fino ad aspetti più stravaganti, come quando inviò in Sudamerica nel 1609 il proprio speziale Evangelista Marcobruno alla ricerca del gusano, un leggendario verme noto per le sue proprietà afrodiache. A fianco di queste ricerche da wunderkammer si affianca come arte egemone la musica. Proprio a Mantova si concentrarono grandi personalità e grandi opere in questo campo, come l’Idropica di Battista Guarini e l’Arianna di Ottavio Rinuccini, musicate da colui che può essere considerato il campione del periodo, il cremonese Claudio Monteverdi.

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Autoritratto di Pieter Paul Rubens. Il maestro fiammingo venne nominato artista di corte da Vincenzo I Gonzaga.

Proprio alla corte gonzaghesca, presso cui Monteverdi lavorava dalla fine del ‘500 e dal 1601 come Maestro di Cappella, si deve l’opera miliare del compositore, l’Orfeo, primo melodramma della storia. Grande sviluppo ebbero anche le arti visive. In tale contesto la figura del duca di Mantova seppe essere un indiscusso modello. All’immagine di costruttore si unisce infatti sia quella di onnivoro collezionista, capace di aperture verso il contemporaneo, ma anche quello di talent scout, in grado di prendere sotto il proprio manto giovani artisti promettenti e di farli maturare, di modo da permetterne un successo internazionale.

In architettura Vincenzo Gonzaga favorì ampliamenti della reggia ducale, con la costruzione dell’Appartamento delle Metamorfosi e della Galleria della Mostra, il completamento della Cappella palatina di Santa Barbara e la costruzione di un grande teatro, andato perduto durante  l’assedio di Mantova. A coadiuvarlo furono due architetti di corte, Francesco Dattaro, cremonese con esperienze francesi e autore della palazzina di caccia di Bosco Fontana a Marmirolo, e Antonio Maria Viani, pittore e architetto a Monaco di Baviera e autore per il Gonzaga degli interventi a palazzo e nel palazzo di delizia a Toscolano Maderno, nei pressi di quello di D’Annunzio. Ad essa si affianca la ricerca collezionistica di opere d’arte, nella quale Vincenzo seppe inserirsi in modo innovatore nei binari dei suoi predecessori, come con l’acquisto della Morte della Vergine di Caravaggio, realizzata intorno al 1604 e rifiutata dai Carmelitani di Santa Maria della Scala di Roma.

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La Trinità adorata dalla famiglia Gonzaga, dipinto da Rubens. La tela subì varie vicissitudini nei secoli successivi alla sua realizzazione che la danneggiarono notevolmente.

Proprio la vicenda caravaggesca si collega all’ultimo elemento della politica culturale del duca di Mantova, ossia l’appoggio da lui dato non solo ad artisti affermati, ma anche a giovani cui seppe dare sostegno e commesse. Tra di loro si rilevano due personalità, entrambe fiamminghe ed entrambe conosciute dal duca durante un suo viaggio diplomatico in quel paese, ossia Frans Poerbus il Giovane e Pietro Paolo Rubens. Se il primo, influenzato dalla tradizione spagnola e fiamminga, diventerà uno dei più rinomati ritrattisti dei Gonzaga e in Francia, il secondo creò con il duca un rapporto molto particolare.

Rubens e Vincenzo riuscirono a creare infatti, nel primo decennio del XVII secolo, una collaborazione forte, capace di aiutare entrambe le parti. Da un lato infatti il duca sovvenzionò il giovane pittore, rendendolo pittore ufficiale di corte e permettendone l’aggiornamento sugli artisti veneti e centroitaliani.

Vincenzo I in adorazione della Trinità. Al suo fianco il padre, Guglielmo Gonzaga.

Favorì inoltre la sua conoscenza entro i circoli intellettuali italiani, permettendogli con il tempo di venire richiesto per committenze importanti, come la pala d’altare per gli Oratoriani di Roma o per quelle pubbliche e private dell’oligarchia genovese. Dall’altro il promettente pittore fu utile al Gonzaga con il ruolo di agente: sia come ambasciatore politico nel 1603 per ottenere cariche presso il duca di Lerma, ministro di Filippo III, a Madrid, o a Roma presso Clemente VIII, sia come agente culturale, inviato per comprare antichità e segnalare nuove acquisizioni. Fu proprio Rubens a segnalare e acquistare l’opera di Caravaggio per la Celeste Galeria.

Tra le opere che sottolineano il sodalizio tra il signore di Mantova e il pittore di Anversa ve n’è una molto interessante, sia per il legame con il committente e con l’artista, sia per la sua storia particolare, che l’ha sottoposto con maggiore o minore forza ai travagli della storia. Essa è La famiglia Gonzaga in adorazione della Trinità, oggi conservato in palazzo ducale.

La duchessa Eleonora inginocchiata con a fianco l’omonima suocera.

La grande tela fu commissionata all’artista dal duca intorno al 1601, venendo conclusa tra il 1604 e il 1605. L’opera era stata pensata come pala d’altare della chiesa della Santissima Trinità, casa madre mantovana del giovane ordine dei Gesuiti, ed inserita entro un ricco apparato teologico. Entro il presbiterio infatti la pala fu accompagnata da due altre tele, poste sulle pareti laterali, raffiguranti Il battesimo di Cristo e la Trasfigurazione, di mano del pittore fiammingo e conservate oggi ai musei di belle arti di Anversa e Nancy. La scelta dei tre temi non era certamente casuale, ma legata alla volontà di ricordare gli episodi di manifestazione della divinità di Cristo. In essi si riscontrano già i segni della sempre famelica capacità di imparare di Rubens, con citazioni sia al michelangiolismo centro italiano e alla battaglia di Cascina sia riferimenti alla Trasfigurazione di Raffaello. Le tematiche scelte inoltre richiamava direttamente la cappella omonima entro la chiesa simbolo del nuovo ordine, ossia quella del Gesù a Roma.

Il futuro Francesco IV Gonzaga, primogenito di Vincenzo, originariamente dipinto alle spalle del padre.

Fuoco del corpus è però la pala della Trinità che, attraverso le mani del pittore, diventa sia un proclama teologico sia un’esaltazione ducale e dinastica. Rubens infatti costruisce la composizione entro una maestosa architettura prospettica manierista, sorretta ai lati da colonne tortili scanalate o decorate a tralci vegetali e aperta sullo sfondo da una balconata su un cielo annuvolato. Tale costruzione, che richiama direttamente i modelli veneti di Veronese e Tintoretto, può far pensare ad una modalità di ampliare lo spazio reale del presbiterio con lo spazio dipinto. Le grandi colonne inoltre testimoniano la conoscenza architettonica del pittore, che spazia dagli arazzi raffaelleschi per la Sistina ad esempi più recenti, come il cortile della Mostra, costruzione manierista di Giulio Romano in palazzo ducale. Entro questa scenografia si dispongono i personaggi, disposti su due livelli. Entro quello inferiore si dispongono simmetricamente i membri di casa Gonzaga, con al centro la coppia regnante. In primo piano, disposti di tre quarti e in ginocchio su inginocchiatoi, si trovano Vincenzo e la seconda moglie Eleonora de’ Medici, abbigliati in ampi abiti chiari e dorati, di foggia spagnola.

Il secondogenito di Vincenzo I Gonzaga, Ferdinando, raffigurato con l’abito da Cavaliere di Malta.

Alle loro spalle, ribadendo la simmetria cromatica tra i coniugi, si trovano i duchi precedenti, Guglielmo I, entro un ricco collo di pelliccia, e la moglie Eleonora d’Austria, figlia di Ferdinando I d’Asburgo. La grande abilità del pittore è qui diretta a un attenta resa ritrattistica dei personaggi, il cui movimento congelato e i cui tratti non sono resi però con la pittura dettagliata fiamminga ma con rapide e precise pennellate, che permettono un senso ancora più forte di vivacità. Tale elemento è ancora più forte in questo caso in quanto, se i duchi regnanti sono ritratti dal vero, le effigi di Guglielmo ed Eleonora, morti prima della realizzazione della pala, sono desunte da ritratti ufficiali conservati in quadreria. La presenza di Guglielmo ed Eleonora ha senso anche in rapporto al luogo poiché i coniugi furono tra i principali promotori dei Gesuiti e del loro stanziamento in città.

A questo nucleo visivo e dinastico, che vuole rilevare la continuità del nuovo governo con il precedente, tende quindi ad allargarsi sul proscenio, coinvolgendo altri personaggi. La maggior parte di essi sono i figli della coppia ducale, disposti in base al loro sesso alle spalle dei genitori e simbolo della continuità della dinastia nel tempo e nelle gerarchie. Direttamente alle spalle di Vincenzo si pone la figura dell’erede Francesco, di tre quarti in ricchi abiti e con sguardo rivolto, in parallelo al padre, verso l’alto. Alle sue spalle si pone il fratello Ferdinando. Egli è ritratto vestito con l’abito dei Cavalieri di Malta, ordine in cui fu ammesso nel 1592, su cui troneggia una grande croce bianca. A differenza del fratello, Ferdinando è assorto nella lettura di un libro di preghiere, che tiene aperto davanti a sé.

Vincenzo Gonzaga, ultimogenito della coppia ducale. Fu dapprima cardinale e poi signore di Mantova succedendo al padre e ai fratelli maggiori.

Tale iconografia vuole qui sottolineare la carriera ecclesiastica cui era destinato e che gli permetterà una ricca vita mondana a Roma, che dovette abbandonare nel 1612, alla morte del fratello senza figli maschi. Conclude il gruppo l’ultimo figlio, Vincenzo, rappresentato seduto su di una gradinata in abito giallo con una larga gorgiera intorno al collo. L’ultimogenito svolge qui una funzione particolare perché si pone in diretto dialogo visivo con l’osservatore, rompendo così il diaframma tra spazio pittorico e spazio reale. Anche Vincenzo fu coinvolto nella successione mantovana, terminando la linea principale della casata.

Sul lato opposto si trovano invece le due figlie. In piedi alle spalle della madre in secondo piano si trova la maggiore, Margherita, in abito elegante e in posizione stante, riconoscibile anche dal ricco corredo di perle, in greco μαργαριτης (margarites), sulla gorgiera. In primo piano, in una postura meno formale e più realistica, si trova infine la sorella Eleonora, che si distrae accovacciandosi per accarezzare un cagnolino di foggia tizianesca.  Si è ipotizzato inoltre che, per mantenere la simmetria dell’opera, un levriero dovesse stare anche a fianco di Vincenzo II. Completano il quadro gli alabardieri, guerrieri armati che incrociando le loro lancia sembrano disegnare lo spazio. Accanto ai quattro armigeri principali s’inserisce però lo stesso Rubens in uno dei suoi primi autoritratti, che si ritrae come un soldato, segno forse anche della familiarità con i Gonzaga.

Il quadro familiare e dinastico ha come proprio centro però il tema che troneggia nella parte alta della tela e che dà il nome all’opera stessa. La famiglia Gonzaga è infatti in adorazione della Trinità, rappresentata nelle tre figure del Padre, destra, del Figlio a sinistra e della colomba dello Spirito al centro. Rubens tuttavia rappresenta questo tema in una modalità nuova, fonte d’ispirazione per il nascente barocco. La Trinità è dipinta infatti come se fosse disegnata o tessuta su un grande arazzo dorato, sorretto da grandi angeli e lo tengono teso e che lo ostentano agli astanti. Tale scelta compositiva rivela qui altri aspetti interessanti di Rubens.

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Margherita Gonzaga, figlia di Vincenzo I ed Eleonora. Sposò il Duca Enrico II di Lorena.

Da una parte essa dimostra la grande apertura a stimoli diversi, come mostra la rielaborazione degli angeli visti di scorcio dal basso e con un ricco effetto chiaroscurale, ripresa dalla pala di San Bernardino di Lorenzo Lotto. Dall’altra essa testimonia l’inserimento dell’artista nel suo tempo. Una prima motivazione per questa particolare composizione sta infatti nei dettami tridentini, definiti alla metà del secolo precedente. In questo caso in particolare i padri conciliari avevano definito illecita la rappresentazione di apparizioni sacre rivolte a personaggi diversi dai santi, specie se viventi. Tale decisione, che nei fatti aveva ampie possibilità di deroga, può quindi aver spinto il pittore a fingere l’apparizione reale in un’immagine dipinta, bypassando così la norma. Tale scelta tuttavia può avere anche un significato estetico, elaborando un elemento manierista, ossia la capacità di mescolare le tecniche e i tipi di rappresentazione, che ebbe risalto proprio con il Barocco.

La storia di questa pala non si esaurisce però con i suoi ideatori, ma vive rispetto a essi una vicenda paradossale. L’intera composizione, infatti, essendo un’opera di committenza ducale ma conservata in una chiesa riuscì a superare gli sconvolgimenti che coinvolgono i Gonzaga tra il XVII e il XVIII secolo, come la svendita della quadreria o il saccheggio di Mantova durante la Guerra dei Trent’anni, così come la dissoluzione del ducato a inizio ‘700 e il passaggio alla casa D’Austria. Vero spartiacque furono invece le campagne napoleoniche. Se le due tele laterali furono inviate in Francia e da qui nelle loro attuali sedi, l’Adorazione venne invece asportata nel 1801 e mutilata in varie sue parti. Tali mutilazioni, che interessarono soprattutto i ritratti e gli elementi architettonici, furono legati ad una loro più facile commercializzazione. Il nucleo centrale invece, rimasto quasi intatto, venne in parte ricomposto in una nuova cornice nel 1806.

Ricostruzione della Trinità Gonzaga quale essa poteva apparire prima di essere deturpata.

La difficile ricostruzione di quest’opera, legata anche alla mancanza di suoi disegni precedenti alle manomissioni ha permesso però di rintracciare molte parti sparse per il mondo. Al nucleo mantovano vanno infatti aggiunti il ritratto di Francesco, ora in deposito sempre a Mantova, quello di Margherita in una collezione privata, quello di Vincenzo II al Kunsthistorisches di Vienna e quello di Ferdinando nella collezione Magnani Rocca nel Parmense. Caso particolare è poi quello del ritratto di Rubens. Se l’originale non è stato ancora riscoperto, un disegno preparatorio su carta ascrivibile a quest’opera si trova ora nella sua casa museo ad Anversa.

La figura di Vincenzo Gonzaga, che la pala dell’Adorazione ben raffigura, mostra quanto tale personaggio personifichi la sua città e il suo tempo. Il fasto, la grandeur e la grande fioritura delle arti e del governo testimoniano quanto sia riuscito ad essere protagonista ed emblema del crepuscolo del Manierismo e dell’aurora del Barocco. Gli stessi elementi però fanno trapelare la sua fragilità e la sua debolezza, che porteranno la sua capitale alla rovina, alla guerra e al dissoluzione.

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