San Salvatore in Chora, il testamento di Teodoro Metokite

Nel corso della Storia succede a volte che alcune epoche subiscano una sorta di damnatio memorie che le elimina dall’attenzione degli uomini o che le fa percepire in modo distorto, facendone emergere una visione stereotipata. In questa condizione si vengono a collocare, inserite in quell’epoca già bistrattata che è il Medioevo, la storia e l’arte dell’Impero Romano d’Oriente, comunemente noto come Impero bizantino.

Gesù Cristo nella Deesis di Santa Sofia a Costantinopoli, simbolo del mosaico bizantino.

Durato oltre mille anni, dal 330 al 1453 d.C., esso è stato per molto tempo avvolto da un clima di oblio mescolato con un’idea di rovina e decadenza. Il termine bizantino assunse una connotazione negativa, specialmente tra gli studiosi anglosassoni, che vedevano in esso l’espressione di una storia lineare, dove alla gloria dell’Alto Impero segue una progressiva decadenza, fatta di una realtà immobile e bigotta, di una corte e di un mondo di colpi di stato, intrighi e vita sregolata.

In campo artistico invece, Bisanzio, anche per la visione espressa dal Vasari sulla pittura italiana precedente alla rivoluzione di Cimabue, Duccio Boninsegna e Giotto, era interpretata come la patria di uno stile ieratico e ripetitivo, fatto di figure rigide e inespressive. a questo si univa la critica verso un mondo che, tutto rivolto all’arte sacra, aveva dimenticato gli importanti risultati dell’antichità, come ad esempio la scultura in bronzo a tutto tondo.

Questa visione negativo oggigiorno è stata superata, sia nella storiografia che nelle belle arti. Il mondo bizantino è stato infatti riconosciuto come una realtà fondamentale del panorama mediterraneo, un vero cardine politico ed economico tra la Tarda Antichità e la prima età moderna, con momenti di crisi e di rinascita militare e culturale. Se quest’evoluzione concettuale ha permesso di valorizzare e comprendere a fondo ampie fasi del millennio bizantino, capaci di influenzare l’Europa occidentale, il Mediterraneo e il Vicino Oriente, alcuni periodi soffrono, ancora, di una cattiva fama. Questa condizione in particolare sembra coinvolgere il cosiddetto “Periodo tardo”, quella fase di circa due secoli che si colloca tra la Quarta Crociata del 1204 e la definitiva caduta delle ultime roccaforti greche tra il 1453 e il 1461.

Carta della situazione politica dell’Egeo alla metà del XII secolo. In rosso i territori bizantini, in viola quelli latini.

Questa lettura decadente della crisi di Bisanzio e della sua lunga agonia finale nasce in realtà da alcuni dati di per sé incontrovertibili. Il saccheggio crociato del 1204 portò alla disintegrazione dell’Impero e alla sua sostituzione con una galassia di signoria greche e latine. Quando infine nel 1261, sotto la dinastia dei Paleologi di Nicea, l’Impero d’Oriente riuscì a riaggregare la maggior parte dei suoi territori originari, subì ugualmente un lungo processo di dispersione a vantaggio dei suoi vicini, ossia i Turchi Ottomani e le nuove potenze balcaniche, Serbia e Bulgaria.

L’Impero inoltre scontava una grave debolezza dal punto di vista economico che si espresse con la graduale svalutazione della moneta ma soprattutto nella cronica mancanza di fondi nelle casse imperiali, tanto da portare l’imperatrice Anna, madre del Basileus Giovanni V Paleologo, a richiedere un ingente prestito alla Serenissima dando in pegno le insegne imperiali, ancor oggi custodite in San Marco.

Hyperperon d’argento di Andronico III Paleologo, che richiama la monetazione genovese

Questo quadro non particolarmente idilliaco nasconde però molti aspetti che possono apparire sorprendenti. L’impero dei Paleologi infatti seppe ugualmente riacquistare un ruolo di potenza regionale dell’area. Ciò avvenne grazie alla costruzione di un intricato sistema di alleanze diplomatiche e matrimoniale sia con importanti realtà occidentali sia con le potenze confinanti, dalla Serbia alla Bulgaria, fino ai principati turchi d’Anatolia e a quelli gengiskhanidi di Persia e dell’Orda d’Oro. Questo portò il glorioso impero d’Oriente ad una sorta di ambigua contraddizione identitaria. Se da un lato infatti le immagini e i riti rappresentavano l’idea del sacro impero universale il cui potere derivava da Dio, nella pratica gli Imperatori svilupparono una politica molto più realistica e concreta, creandosi un sistema di contrappesi e alleanze momentanee che, con forse cinico equilibrismo, garantì loro la sopravvivenza fino alla metà del XV secolo.

Questo aspetto di attiva vitalità politica si riscontra anche nelle arti. Se è vero che le ristrettezze di fondi impedì l’apertura di maestosi cantieri ex novo a Costantinopoli e nell’impero, la politica edilizia fu per tutto il periodo particolarmente florida, rivolta sia a edifici laici, come il palazzo delle Blacherne o le Mura di Terra, ma anche a edifici religiosi, sia secolari che monastici, femminili e maschili, realtà coinvolte in opere di restauro ma capaci di acquisire una forma innovativa e un decoro estremamente elaborato e ricco.

Visione dell’abside orientale , dell’arcone est e della cupola di Santa Sofia, restaurata in piena età paleologa

Simbolo di questa fase fu ancora una volta Santa Sofia, restaurata da Giovanni V dopo i danni subiti dai terremoti del 1344 e del 1346. Sul lato artistico l’apparente monotonia nello stile nasconde invece una variabilità ad ampio spettro. Questo aspetto in particolare gioca sullo sviluppo, più intenso che in passato, di più scuole pittoriche, nate in sedi di governo o in regioni lontane dalla capitale, con uno stile naturalistico in Morea , uno manierato a Nicea, o più compassato e ufficiale della capitale.

Un emblema di questo crogiolo storico e culturale può essere osservato in una grande chiesa, un tempo parte di un grande complesso monastico maschile, collocato proprio a Costantinopoli, subito all’interno della cerchia delle mura e nei pressi della conclusione della Mese, l’antica via cerimoniale bizantina. Un luogo importante per tanti aspetti, sia in chiave storica, come esempio di sviluppo nel tempo di un grande edificio sacro, ma anche artistico, in quanto scrigno di uno dei rari cicli musivi e pittorici bizantini ancora oggi esistenti. Lo è anche per il profilo politico, culturale e artistico che le ha trasmesso e infuso uno dei suoi fondatori, il Gran Logoteta Teodoro Metokite. Questo è il monastero noto come San Salvatore in Chora, uno dei gioielli della Bisanzio paleologa benchè la sua fondazione risalga a parecchi secoli prima.

Le sue vicende storiche non sono molto chiare per la discrepanza che esiste tra le fonti scritte e le scoperte archeologiche effettuate dagli anni ’50. A differenza di altri monasteri coevi, non si è conservato il typicon di nessuna delle fasi della costruzione. Questo documento specifica lo stato giuridico del monastero e delle sue immunità, nonchè le norme che regolano la vita monastica ed è arricchito da racconti riguardo la vita del fondatore, le motivazioni della fondazione pia, ma anche da informazioni sulla storia del luogo. Nonostante questa mancanza altre fonti sembrano aiutare nella ricerca. Tra queste Niceforo Gregora, intellettuale e scrittore allievo dell’ultimo fondatore Metokite, monaco presso la Chora e quindi direttamente a contatto con i suoi documenti. Gregora in particolare fa risalire l’origine della chiesa al VI secolo.

Ritratto dell’imperatore Giustiniano nel presbiterio di San Vitale a Ravenna

Il monastero sarebbe stato fondato verso il 537 da un santo monaco di nome Teodoro, il quale vi collocò le reliquie di alcuni santi molto venerati, come Sant’Antimio di Nicomedia e i Quaranta Martiri di Sebaste. Nel 557, l’edificio avrebbe subito un primo restauro per volontà dell’imperatore Giustiniano. Tale elemento, che costituisce il primo legame forte tra la figura imperiale e il monastero, sarebbe stato dovuto ai legami familiari che sarebbero esistiti tra Teodoro e l’imperatrice Teodora, moglie di Giustiniano.

La chiesa avrebbe dunque avuto un’origine illustre che però non trova alcun riscontro documentario. Attribuendogli un legame con uno degli imperatori più iconici della prima età bizantina, Niceforo Gregora avrebbe quindi cercato di conferire al monastero un passato glorioso. Molto più credibile e suffragato da dati archeologici è invece una fondazione postdatata che riconoscerebbe nel fondatore Crispo, genero dell’Imperatore Foca. Il complesso monastico risalirebbe quindi agli inizi del VII secolo d. C, così come a questo periodo risalirebbe la sua attuale titolatura.

Lunetta d’ingresso sulla porta tra esonartece e nartece interno. La figura del Cristo Panthocrator riporta l’iscrizione Chora dei Viventi.

Il nome Chora in particolare è stato letto nel tempo in modi diversi. Si era pensato infatti che esso identificasse il concetto greco di Chora, ossia di territorio, inteso come contado esterno alle mura. Un dettaglio importante, perché indicherebbe un’origine precedente alle mura teodosiane della prima metà del V secolo. Rileggendo le fonti scritte e quelle artistiche tale nomenclatura assume invece un senso più alto, legato alla titolarità del luogo. La chiesa e il monastero, insieme o separati, erano infatti dedicati da un lato alla figura di Cristo, dall’altro alla Vergine.  Il primo in particolare è ricordato come Chora dei Viventi (Terra dei Viventi), mentre la seconda, in connessione all’Incarnazione, come Chora dell’Incontenibile (Terra/grembo dell’Incontenibile). Sarebbero quindi sottolineati sia il ruolo cristologico di rifugio e destinazione dei viventi e dei defunti, sia quello mariano di concepimento e incarnazione di Dio nella sua forma umana.

La centralità acquisita in origine rimase viva per tutto il periodo successivo, creando un legame stabile con il patriarcato costantinopolitano e inserendosi a pieno titolo nella polemica iconoclasta. Nel monastero trovarono infatti alloggio e sepoltura diversi patriarchi in contrasto o deposti dagli imperatori contrari al culto delle immagini. Emblematico in questo senso fu, alla fine del IX secolo, l’abbaziato di Michele Sincello, uno tra i più importanti fautori del culto delle immagini.  Esiliato dall’imperatore Leone V con alcuni discepoli, Sincello tornò alla Chora alla fine della temperie iconoclasta, venendo eletto abate. A lui si deve la prima riforma dell’agire monastico, attuata probabilmente ispirandosi ai modelli appresi a Gerusalemme.

Manoscritto del IX secolo rappresentante personaggi iconoclasti in basso, la cui colpa è associata al supplizio di Cristo.

Il vero grande rinnovamento del monastero è databile tra l’XI e il XII secolo ed è legato ad una figura molto importante, Maria Duceana, suocera di Alessio I Comneno. Ella avrebbe ricostruito l’edificio tra il 1077 e il 1081, periodo in cui era protovestiaria e aveva un ruolo significativo a corte e godeva di grande influenza nei rapporti tra le famiglie aristocratiche al potere. Maria Duceana fece ricostruire la chiesa con una pianta a croce greca inscritta e caratterizzata da un’area presbiteriale con un’abside centrale e due absidiole laterali ed una cupola centrale sorretta dalle colonne.

Nel secolo successivo si assistette ad un ulteriore intervento di tipo restaurativo. Questo cantiere interessò in particolare l’area absidale, presumibilmente crollata a causa dell’ennesimo terremoto e contribuì a dare all’edificio un aspetto più monumentale rispetto al precedente. La nuova costruzione si caratterizzava per una grande abside centrale con una cupola più ampia, sorretta da pilastri. Al nucleo centrale furono aggiunti una serie di ambienti secondari, in particolare le pastophoria, destinate a fungere da sacrestie e depositi per reliquie e soprattutto alcuni ambienti ampi, connessi alla chiesa attraverso arcate, ora chiuse, sul lato settentrionale e meridionale, lungo il quale si trovava probabilmente il parekklesion, la cappella privata e funeraria del fondatore.

Ritratto dalla Deesis della Chora di Isacco Comneno.

Fondatore e sostenitore di questo intervento fu Isacco Comneno (ca. 1093-1152), sebastocrator e fratello dell’imperatore Giovanni II Comneno. Seppur non esistano fonti dirette che certifichino tale legame, vi sono documenti che sottolineano un suo legame personale e patrimoniale con il monastero. Tra questi in particolare il typicon del monastero della Theotokos Kosmotira in Tracia. In esso in particolare chiede di traslare dalla Chora nel nuovo monastero la sua tomba con marmi e parti bronzee insieme con l’icona della Theotokos presente nel monastero costantinopolitano.

La sua posizione di neo-fondatore del monastero sarebbe inoltre suffragata proprio dal mosaico della Deesis fatto realizzare da Metokite, dato che la sua posizione come supplice insieme ad un’altra figura femminile ai piedi di Cristo e della Vergine, titolari della chiesa, farebbe pensare proprio ad un omaggio nei confronti di figure che prima di lui avevano svolto la funzione di patroni se non di fondatori per il monastero. La datazione dell’intervento di Isacco Comneno è solo ipotetica, ma si può collocare intorno al 1120. A questa data, dopo la morte del padre, egli avrebbe assunto appunto la carica di sebastokrator per volere del fratello. La sua opera si collocherebbe inoltre in parallelo con il cantiere devozionale e dinastico promosso da Giovanni al monastero del Panthokrator.

L’aspetto attuale della chiesa si deve però all’ultimo intervento storicizzato, promosso da una figura particolare, quella del Gran Logoteta Teodoro Metokite (1270-1332). Una personalità importante, perché la sua esistenza costituisce una sorta di exemplum dei personaggi della corte costantinopolitana durante il periodo paleologo. Figlio di una famiglia dell’aristocrazia greca, visse la propria gioventù in esilio a Nicea, dove suo padre, Giorgio Metokite era stato esiliato dal sovrano Andronico II a causa del suo sostegno alla riunificazione delle Chiese Cattolica e Ortodossa.

Teodoro Metokite offre il modello della Chora a Cristo Pantocratore

Quando Andronico II Paleologo visitò Nicea nel 1290/1291, Metochite destò una grande impressione nel Basileus. Le sue capacità intellettuali affinate dal costante impegno negli studi, gli permisero di essere scelto per guidare due importanti ambascerie, dapprima nel 1295 a Cipro e nella Cilicia armena e successivamente in Serbia nel 1299 per il matrimonio tra la principessa Simonida e Stefan Uros II Milutin. Dato il successo di entrambe, l’imperatore lo nominò Logoteta privato di Stato e successivamente Primo ministro della corte tessalonicese di sua moglie Irene di Monferrato. L’esperienza acquisita sul campo portò quindi alla nomina a Logoteta del Tesoro, ossia Ministro delle finanze, un ruolo molto delicato data la difficile situazione delle casse dello Stato. Infine nel 1321 Teodoro fu nominato Gran Logoteta, vale a dire Primo Ministro dell’Impero bizantino. La sua ascesa fu suggellata dal matrimonio tra sua figlia Irene e Giovanni Paleologo, nipote dell’imperatore.

Un’ascesa rilevante, che tuttavia non lo mise al riparo dalla possibilità di cadere in disgrazia. In particolare, Metokite subì personalmente i contraccolpi della guerra civile che nel corso degli anni ’20 del XIV secolo, contrappose l’imperatore Andronico II e il nipote omonimo. La sua fedeltà incondizionata al vecchio sovrano gli costò la confisca dei beni e l’esilio a Didymoteicho, in Tracia. Nel 1330 Teodoro poté rientrare nella capitale, ritirandosi come monaco alla Chora dove si spense due anni dopo, il 13 marzo 1332, esattamente un mese dopo Andronico II, trovando sepoltura all’interno del monastero.

Visione d’insieme della Chora. Sono visibili le quattro cupole e, a destra, la base del minareto costruito in epoca ottomana sulle fondazioni del campanile.

I principi e le idee di Teodoro Metokite trovano la loro applicazione nel cantiere di San Salvatore in Chora. Riuscire ad analizzare il suo intervento è anche in questo caso complesso per l’assenza di un typicon monastico a lui contemporaneo, ma alcuni dati si possono rintracciare attraverso l’analisi di alcune lettere da lui scritte nel corso degli anni. Fatta demolire la vecchia chiesa, egli la ricostruì ex novo, ricoprendola di marmi e mosaici ed edificando una serie di spazi annessi. Nei suoi scritti Metokite ricordò l’ampio corredo in oro e argento, gemme e perle e i tendaggi ricamati in oro, oltre alle icone. Sottolineò la cura nella scelta dei monaci ospitati, chiamati in base alla loro vita ascetica e alla loro abilità nel canto, giungendovi da tutti i territori dell’impero, compresa l’Asia Minore, da cui Metokite proveniva.

Il fondatore inoltre non mancò di disporre tutto ciò che poteva essere necessario al sostentamento materiale e spirituale dei monaci. Da un lato infatti fece dono di diverse proprietà fondiarie al monastero, cui donò la propria biblioteca, composta di testi sacri e profani. Dalle lettere di Teodoro Metokite emergono poi le motivazioni profonde che lo spinsero a farsi promotore del restauro del monastero, un luogo a lui particolarmente caro, dove il logoteta amava recarsi per pregare e ascoltare gli inni cantati dai monaci. Egli tuttavia non intendeva solamente assicurare la salvezza della propria anima. Metokite infatti interpretò il restauro di San Salvatore in Chora come un mezzo per perpetuare la propria fama presso i posteri. Un’intenzione, questa, che egli esprime in maniera diretta e plateale, senza nessun tipo di modestia.

Sezione della chiesa del monastero di San Salvatore in Chora.

Le fonti sottolineano infatti come i peccati che egli intendeva espiare fossero legati alla sua azione politica che, specialmente nel periodo in cui Metokite fu al vertice dello stato, fu caratterizzata da malversazioni e corruzione. Fu però proprio quel denaro ottenuto in maniera disonesta – definito frutto del “sangue dei poveri” – a consentirgli di finanziare il cantiere del monastero.

L’ambiguità delle motivazioni di Teodoro è testimoniata dal rapporto con i suoi predecessori. L’operato di Teodoro mantenne la contraddittorietà tra le testimonianze scritte e le architetture esistenti. Se all’interno delle lettere il ruolo del logoteta era preponderante, nell’edificio sacro esso manifesta in più aspetti un senso di continuità con il passato. L’edificio in particolare è considerato come un esempio di arte tardo bizantina caratterizzato da uno stile disarmonico, composto da una struttura irregolare, dove le decorazioni aiutano ad unificare parti altrimenti incongrue, regolarizzando spazi irregolari. Questo elemento, creduto un carattere stilistico peculiare della tarda età bizantina, potrebbe essere letto in una differente direzione. Questa presuppone una scelta consapevole alla base delle irregolarità, compatibile con la mentalità intellettuale del suo fondatore. Nella Chora in particolare il principio ispiratore è quello della contiguità tra il nuovo e il vecchio, dove il primo tende a non sovrapporsi al secondo, ma a rispettarlo. Analogamente gli interventi rinnovativi che vengono compiuti nel naos, luogo sacro del complesso e che mantiene architettonicamente il medesimo alzato di età comnena, vengono ideati modellando lo stile del XIV secolo con quello di tre secoli prima, antichizzandolo, mentre quelli compiuti negli annessi successivi si manifestano coerenti con il loro tempo.

Presbiterio della chiesa della Chora. Le icone del Panthocrator e della Vergine Hodeghitria, paleologi, dialogavano un tempo con una Vergine comnena nella conca absidale.

Questo elemento nasce quindi sia con un significato simbolico, che preserva e integra il cuore sacro dell’edificio monastico, ma anche politico sociale, materializzando la posizione di Metokite come diretto e legittimo successore dei fondatori precedenti. Tale elemento sembra inoltre riguardare anche il decoro musivo. Metokite avrebbe infatti conservato brani di decorazione di XII secolo, specie nel soggetto mariano nell’abside, mettendolo in dialogo con le icone musive della Vergine e di Cristo nella medesima sezione, ma anche con immagini di medesimo soggetto poste nei narteci di ingresso. Interessante è anche la presenza archeologica di vetri colorati di finestre, un tempo decoranti le finestre dell’abside comnena, mantenuti poi dall’intervento di Metokite. Questo carattere di rimando al passato e di contiguità tra strutture cronologicamente differenti viene confermato anche attraverso edifici che presentano genesi compositive analoghe. Esemplari sono in particolare il monastero di Lips, fatto restaurare dall’imperatrice Teodora, madre di Andronico II. In quel caso, più che nella Chora e riprendendo il precedente del Panthocrator, la suddivisione tra spazi antichi e moderni viene ad assumere anche una valenza funzionale, liturgica o funeraria. Cuore di questo rimando al passato si riscontra però nella Deesis, un grande pannello mosaicato collocato sulla parete a destra dell’ingresso interno. Tale immagine ripropone i due titolari del monastero, la Vergine e Cristo, accompagnati da due personaggi inginocchiati, rappresentati più piccoli per ruolo gerarchico. Essi rappresentano i predecessori di Metokite, in posizione di supplici. Sulla sinistra Isacco Comneno mentre sulla destra una monaca, indicata come Melania Principessa dei Mongoli, identificata con Maria Paleologina, figlia illegittima di Michele VIII e andata sposa all’Ilkhan di Persia. Ella avrebbe donato tessuti dorati e una Bibbia dell’XI secolo al monastero, diventandone benefattrice. 

Visione d’insieme della Deesis. Alle figure grandi di Cristo e di Maria si accostano a sinistra Isacco Comneno, a destra Maria Paleologina.

Il grande cantiere architettonico e decorativo della Chora si sviluppò in una tempistica non cronologicamente definita, ma che possiamo ricostruire attraverso gli scritti di Metokite e di Gregora. L’opera innanzitutto è sicuramente completata tra il 1320 e il 1321, periodo nel quale Gregora riferisce essere già in piena funzione. Il cantiere quindi non durò a lungo e soprattutto la decorazione procedette in parallelo con la costruzione delle altre sezioni. I lavori interessarono innanzitutto l’area sacra, il naos, sul quale sono compiuti interventi limitati, per poi estendersi ai narteci e al parekklesion. È stato quindi ipotizzato che, dato che il logoteta avrebbe detenuto il potere politico ed economico per realizzarlo solo dal 1308, l’opera si sia sviluppata tra il 1315 e il 1321.

Pianta del complesso monastico, con il naos centrale, i due narteci e il parecclesion a destra.

L’edificio si presenta con al centro il naos, non ricostruito come affermato dal fondatore ma restaurato riedificando il tamburo e la cupola, nel quale è evidente il contrasto tra la nuova e la vecchia muratura. Le pareti furono ricoperte di decorazioni marmoree, non è chiaro se inserite ex novo o recuperate dal cantiere precedente, oscurando con essi alcuni difetti strutturali che l’edificio antico presentava. Nulla rimane dell’apparato liturgico interno, seppur siano state trovate le tracce del ciborio. Della decorazione mosaicata originale non rimangono molte tracce, se non le due icone della Vergine Hodegitria e di Cristo ai lati dell’abside e la raffigurazione della Morte della Vergine in corrispondenza della controfacciata interna.

L’edificio presenta poi due narteci, uno interno e uno esterno. Anch’essi decorati con marmi colorati fino all’altezza delle lunette, quello interno si articola sul lato occidentale con accesso diretto all’annesso nord e alla chiesa, mentre il secondo, parallelo al primo, ne chiude il fronte meridionale, garantendo un accesso diretto al parekklesion. Tale caratteristica tuttavia porta ad un disequilibrio, per il fatto che il portale, in asse con la chiesa si trovi ad essere sbilanciato nell’assetto generale della facciata. Il nartece interno riporta, per motivi di luminosità ma anche per esigenze narrative, due cupole a spicchi, poste ai due estremi, seguite in entrambi, da volte a vela di dimensioni e forma differente, coerenti sia con la loro posizione e importanza, dalle necessità di armonizzazione con il naos e con gli altri annessi oltre che renderle un miglior supporto narrativo.

Decoro musivo con scene mariane nel nartece interno

Intorno al naos si sviluppano poi altri annessi, di cui il più importante risulta il parekklesion, cappella privata e di sepoltura destinato al fondatore e a suoi accoliti. Esso si articola in una sola navata composta da tre campate, di cui l’ultima costituente il bema(zona sacra), chiuso alle spalle da un’abside semicircolare. L’edificio, collegato al pastophorion meridionale e alla chiesa attraverso due porte, è caratterizzato da un ingresso principale comunicante con il nartece esterno, con un intercolumnio sporgente, ora aperto ma originariamente chiuso da una porta in legno, di cui rimangono traccia di cardini, che creava un ambiente indipendente. Al di sopra della prima campata si colloca un ulteriore cupola a spicchi, sorretta da un tamburo con finestre. Esso è un edificio risalente alla fase di XIV secolo, anche se doveva esistere un luogo con la medesima funzione nell’edificio comneno. Alle pareti si collocano quattro arcosoli funerari, due per ogni campata, costruiti nello spessore delle mura perimetrali.

Concludono la costruzione i pastophoria e l’annesso settentrionale. Il primo è suddiviso in due parti, collocate a nord e sud dell’altare. Molto simili a livello volumetrico con abside e cupola a spicchi, essi ipoteticamente svolgono ruoli differenti. Se il primo, collegato all’area presbiteriale tramite un ingresso comneno e con l’annesso settentrionale dovette svolgere il ruolo della prothesis, ossia quello di servizio alla liturgia, l’annesso meridionale mostra invece di aver avuto forse un’utilità precedente come diaconion, persa con il restauro di Metokite, che lo ricostruì collegandolo direttamente al parekklesion. In tale posizione esso poteva svolgere il ruolo di prothesis del parekklesion o la funzione di battistero.

Interno del Parecclesion. Nella conca absidale l’Anastasis, ai lati gli arcosoli con le tombe e i santi guerrieri a protezione.

Analoga problematica funzionale presenta l’annesso settentrionale. La grande sala coperta da una volta a botte e comunicante con la prothesis e con in nartece interno, non ha trovato una condivisione sul suo ruolo. Una prima ipotesi, dettata dalla modifica del primo diaconion, fa pensare che abbia assunto sotto Metokite questa funzione, utile per la vestizione per gli officianti ma anche come reliquiario per oggetti sacri e icone. Si è ipotizzato che possa essere stato la sede della tesoreria, custodia dei ricchi doni al monastero, o deposito per l’ingente fondo librario donato dal suo fondatore, di cui Metokite parla diffusamente e di cui ha molta cura.

Oltre all’aspetto architettonico, Metokite rivolse la sua attenzione soprattutto sul dato decorativo. Il ciclo principale, realizzato a mosaico e oggi parzialmente conservato, si colloca all’interno dei due narteci e nel naos. La scelta tematica trova la sua ragion d’essere nei due dedicatari del monastero, la figura di Cristo Terra dei viventi e quello della Vergine come Terra dell’Incontenibile. Questo aspetto porta alla totale assenza di storie legate ai santi o all’Antico Testamento, se non con episodi preludio del messaggio evangelico. Emblematica è soprattutto la figura di Cristo che è presente in modo preponderante nel luogo di culto.

Mosaico con scena mariana nel nartece interno della Chora

Centrali in questo frangente il mosaico dedicatorio nel nartece interno, dove Metokite dona a Cristo in trono il modello della chiesa e la Deesis, dove i due offerenti si pongono sotto la protezione di Cristo e della Vergine, avvocata al momento del giudizio, mentre è totalmente assente la figura di Giovanni Battista. Il tema di riferimento è quello dell’Incarnazione e della diretta salvezza degli uomini. La storia della salvezza si sviluppa quindi per percorsi collegati tra di loro.

Da un lato sono rappresentate, in ordine circolare nel nartece esterno e in quello interno, le vicende terrene della Vergine, dalla cacciata di Gioacchino dal Tempio al matrimonio con Giuseppe, quelle dell’infanzia di Cristo, dalla Natività al suo ritrovamento tra i dottori fino a quelle dell’età adulta, le quali si concentrano in particolare sui miracoli. Il fatto che tale narrazione si concluda prima delle vicende cardine della Passione e della Morte di Cristo fa pensare che ad essi era riservata la decorazione del naos oggi andata quasi totalmente perduta.

Cupola meridionale del nartece interno. Al centro il Panthocrator, con intorno negli spicchi la genealogia ampliata di Cristo.

Il dogma dell’Incarnazione trova la sua rappresentazione nel decoro delle cupole, la cui particolare conformazione ha fatto pensare ad una precisa necessità narrativa. Nella cupola meridionale, infatti attorno alla figura centrale del Cristo Panthocrator si dispongono i progenitori di Gesù da Adamo a Esrom, mentre in quella settentrionale la figura della Vergine Theotokos è circondata dai Re d’Israele a partire da Davide. La loro disposizione e la loro scelta non è casuale, con la figura di Cristo in dialogo con quella di Adamo e quella della Vergine con quella di Davide. Tra le figure rappresentate negli spicchi delle cupole e nel tamburo tra le finestre sono inseriti però anche personaggi esclusi dalla genealogia scritturale. La presenza, infatti, di figure come Abele o i figli di Giacobbe ha un significato ecclesiale, costruito su genealogie patristiche composte nel corso dell’XI secolo e utilizzate in contesto liturgico proprio nel periodo antecedente il Natale.

Il discorso teologico e intellettuale della Chora si conclude in senso unitario con il ciclo nel parekklesion. Questo, per la sua funzione, svolge un ruolo centrale anche per la figura di Metokite. Anche in questo luogo le personalità di riferimento sono Cristo e la Vergine. In continuità con il nartece il tema centrale è la redenzione, disposta in due aree distinte ma che, in entrambi i casi, hanno un aspetto più rivolto alla condizione delle anime dei defunti, in assonanza con il contesto. La parte più orientale si concentra sull’azione redentrice di Cristo e di vittoria sulla morte, con episodi di miracoli di resurrezione, il Giudizio finale e, nella conca absidale, la scena di Cristo al Limbo o Anastasis, che precede temporalmente ma che prefigura la Resurrezione di Cristo.

Catino absidale del Parecclesion, con la scena di Cristo al Limbo, prefigurazione della Crocefissione.

Il tema cristologico è accompagnato, ad occidente, da quello mariano. L’attenzione a Maria si lega sia all’incarnazione sia al ruolo della Madre di Dio come somma interceditrice degli uomini verso Dio nel Giudizio Finale. Questo contesto, di sottofondo anche nella Deesis, si articola su due registri. Da un lato nelle lunette e sulle volte con episodi veterotestamentari, come il Sogno di Giacobbe, letti dalla teologia come prefigurazioni del ruolo della Vergine e del suo compito salvifico. Dall’altro nel decoro interno della cupola. Alla figura centrale della Vergine con il Bambino, infatti, fanno corona una teoria di angeli, mentre i pennacchi sono decorati con quattro innografi, autori di testi riguardanti proprio la Vergine. Le loro figure hanno un peculiare rapporto con il fondatore. San Giovanni Damasceno, San Cosma il Poeta, San Giuseppe il Poeta e San Teofane uniscono infatti al carattere mariano dei loro scritti, con precisi riferimenti iconografici agli episodi veterotestamentari, anche inni riferibili al servizio per i defunti, coerente con la necessità del luogo. Un elemento molto caro proprio a Metokite. Gli inni, infatti, ne avevano caratterizzato la frequentazione in vita del monastero, il cui canto e carattere salvifico era di sollievo per il logoteta contro le difficoltà della vita politica e successivamente contro il capovolgimento della sua fortuna.

Visione d’insieme della cupola del Parecclesion, con la Vergine Odeghitria, la teoria di angeli e gli innografi nei pennacchi.

Altrettanto lo erano dopo la morte, per il fatto che, come fondatore, Metokite decise di essere qui sepolto, affinché i monaci potessero con le loro preghiere propiziare la sua salvezza ultraterrena e lenire i peccati da lui commessi. La sepoltura del fondatore, associata anche allo svolgimento, coerente con le immagini e i riferimenti processionali, del rito funebre bizantino, nasceva anche da un’esigenza diversa, quella di preservare il corpo da tutti gli accadimenti che avrebbero potuto coinvolgerlo dopo la morte, dimostrata dai santi guerrieri a guardia dell’eterno riposo. Tale attenzione, tuttavia, non permette oggi una certa identificazione della sepoltura. Identificata nella Tomba A, posta sulla parete nord nella campata d’ingresso, la scoperta da una sepoltura orientata est ovest e posta all’interno dell’abside in asse ha portato ad una seconda ipotesi. Tale tomba, di l’età tardo bizantina, sarebbe quella di Metokite sia per la posizione eminente nel parekklesion ma anche per la vicinanza con la rappresentazione dell’arcangelo Michele. Il santo, oltre ad essere il protettore delle anime, sembra avere un rapporto privilegiato di venerazione da parte del fondatore. Egli, infatti, in un suo scritto, chiede all’Arcangelo di intercedere per lui durante il Giudizio Finale.

Arcosolio in stucco con angeli e Pantocratore su una delle tombe del Parecclesion

La vicenda storica del monastero della Chora supera però quella del suo ultimo fondatore. Essa rimase centrale lungo tutto il periodo paleologo soprattutto per il patriarcato costantinopolitano, data la sua vicinanza alle Blacherne, sede del potere. Assunse anche, proprio per il suo legame mariano, un ulteriore valore sacrale, simboleggiato dalla frequente residenza nel monastero della sacra icona della Theotokos, vero Palladio della città e frequentemente in processione sulle mura, alle spalle del complesso. Una centralità e un’importanza che non vennero meno neanche in età ottomana. Analogamente alla Pammacharistos, sede del patriarcato, la Chora mantenne il ruolo di chiesa per lungo tempo, divenendo moschea solo con Hadim Ali Pashà nel 1511, quando era Gran Visir di Bayazed II, prendendo il nome di Karje Camii.

La cupola meridionale del nartece interno che copre la Deesis. I mosaici furono riscoperti e restaurati nel 1949 e musealizzati nel decennio successivo.

Una trasformazione che, come in altri casi, non portò alla distruzione dei mosaici ma solo alla loro copertura, oltre che alla ricostruzione di alcune parti, come dei pavimenti e della cupola del naos, crollata in un’altra occasione. La storia contemporanea ha visto la Chora ancora protagonista, prima con i restauri e la riscoperta dei cicli musivi nel 1948 e la successiva musealizzazione del 1958, oggi con la decisione turca di una sua riconversione in moschea, progettata presumibilmente con coperture di tendaggi temporanei del ricco patrimonio bizantino.

Il monastero della Chora è quindi un complesso affascinante, narratore di una storia millenaria che sembra seguire e raccontare le epoche e le vicissitudini dell’Impero Romano che l’ha ideata e plasmata. Un luogo che racconta la vita dei suoi protagonisti, dal tempo di Giustiniano fino alla corte variegata dei sovrani Paleologi. Una realtà che ribalta, forse più di altre più famose, i pregiudizi su quel mondo bizantino che crediamo così lontano ed esotico ma che in realtà racconta anche molto del nostro mondo. Sotto le cupole mosaicate e tra i muri dormienti del monastero di San Salvatore in Chora.

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Un pensiero riguardo “San Salvatore in Chora, il testamento di Teodoro Metokite

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