Per quasi quarant’anni, tra il 1494 e il 1530, la Penisola italiana fu al centro delle mire espansionistiche delle due principali potenze del Continente, Francia e Spagna, che trasformarono il nostro Paese nel loro principale campo di battaglia. Come si può facilmente intuire i decenni tra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo rappresentarono un periodo drammatico che segnò sia il passaggio dell’Italia dal Medioevo all’età Moderna, sia il suo declino sul piano economico e culturale dopo i fasti del Rinascimento.

A scatenare gli appetiti delle grandi potenze fu in prima battuta la straordinaria ricchezza degli Stati italiani i quali erano però nel contempo privi di uno strumento militare tale da dissuadere possibili aggressori stranieri. Questa debolezza era accentuata dall’intrinseca rivalità che da sempre caratterizzava gli italiani, pronti a combattersi ferocemente in nome dei propri interessi particolari.
L’Italia del Quattrocento era infatti una galassia di principati, signorie e repubbliche in eterna lotta fra loro. Alla metà del secolo, nel 1454, la stipulazione della Pace di Lodi pose fine al pluridecennale conflitto tra la Repubblica di Venezia, il Ducato di Milano e i rispettivi alleati gettando le basi per un quarantennio di pace stabile che a sua volta favorì la fioritura artistica e letteraria del Rinascimento. I fragili equilibri diplomatici erano tuttavia destinati a infrangersi nuovamente con l’arrivo del 1492. L’8 aprile di quell’anno infatti si spense appena quarantatreenne Lorenzo de Medici, detto il Magnifico. Il signore di Firenze era stato l’ago della bilancia della politica italiana e la sua scomparsa segnò una prima incrinatura nel sistema degli Stati regionali sorto con la Pace di Lodi. Qualche mese dopo morì anche Papa Innocenzo VIII – al secolo Giovanni Battista Cybo – che venne sostituito sulla Cattedra di San Pietro dal famigerato Alessandro VI Borgia, di origine spagnola e dunque estraneo alle dinamiche interne agli Stati italiani.

Ma il 1492 portò con sé grandi cambiamenti anche all’infuori dell’Italia. L’anno si aprì infatti con la resa del Sultanato di Granada, che il 2 gennaio cedette di fronte allo strapotere dei Re Cattolici Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia, fatto che determinò il tramonto della dominazione moresca nella penisola iberica. La conclusione della plurisecolare stagione della Reconquista consentì ai monarchi iberici di allargare il proprio raggio d’azione al di fuori della Spagna verso il Nordafrica, l’Atlantico – di lì a poco infatti Ferdinando e Isabella avrebbero accordato il loro appoggio alla spedizione di Cristoforo Colombo – ma anche verso l’Italia, dove un la Casa d’Aragona controllava i Regni di Sardegna e Sicilia mentre un ramo cadetto della stessa sedeva sul trono di Napoli. Non bisogna tuttavia dimenticare un altro, fondamentale, attore della politica europea vale a dire la Francia. Sul trono del regno transalpino – uscito trionfante nel 1453 dalla lunghissima Guerra dei Cent’anni contro l’Inghilterra – sedeva fin dal 1483 Carlo VIII di Valois, un monarca giovane – era nato nel 1470 e aveva allora poco più di vent’anni – ambizioso e imbevuto di letteratura cavalleresca che sognava di emulare le gesta di Carlo Magno e San Luigi.

Fu proprio Carlo VIII a dare inizio alla lunga stagione delle guerre d’Italia quando, nell’estate del 1494, varcò le Alpi alla testa di un’armata imponente: 30 mila uomini di cui 5 mila svizzeri, allora considerati la truppa mercenaria migliore d’Europa. Ma soprattutto il Re di Francia disponeva di un numeroso ed efficiente parco di artiglieria, capace di ridurre in macerie qualsiasi fortificazione avesse provato a sbarrare il passo al suo esercito. L’obbiettivo della campagna italiana di Carlo VIII era la conquista del Regno di Napoli, su cui il sovrano transalpino vantava pretese al trono in virtù della sua discendenza, attraverso sua nonna paterna, dalla dinastia angioina che aveva governato Napoli tra il 1282 e il 1442. Una volta che le sue truppe avessero assunto il controllo del Mezzogiorno d’Italia Carlo intendeva farne la base di partenza per una crociata volta alla liberazione di Costantinopoli o addirittura di Gerusalemme.
A favorire la discesa in Italia di Carlo VIII erano state, ancora una volta, le rivalità che caratterizzano i principi italiani, nello specifico il reggente del Ducato di Milano Ludovico Sforza, detto il Moro, e il Re di Napoli Alfonso II d’Aragona. Il Moro fin dal 1480 si era di fatto impadronito del potere estromettendo il legittimo Duca, suo nipote Gian Galeazzo Maria Sforza, confinato nel castello di Pavia. Nel 1489 l’ormai ventenne Gian Galeazzo era stato fatto sposare alla principessa Isabella d’Aragona. Pochi anni dopo la situazione precipitò in quanto la giovane moglie di Ludovico, Beatrice d’Este, diede alla luce un figlio maschio, Ercole Massimiliano, che fu investito del titolo di Conte di Pavia, tradizionalmente portato dall’erede al trono del Ducato.

Temendo per la propria vita oltre che per quella del marito e dei figli Francesco e Ippolita, Isabella rivolse una richiesta di aiuto ai parenti rimasti a Napoli a cui suo padre Alfonso, asceso al trono nel gennaio del 1494, rispose dichiarando guerra a Ludovico e occupando la città di Bari, di cui il Moro deteneva la signoria. Lo Sforza allora, per rispondere alle minacce del Re di Napoli lasciò mano libera al monarca francese di scendere in Italia. Preceduto da un’avanguardia guidata da suo cugino, Luigi d’Orleans, Carlo VIII superò il passo del Monginevro e scese verso Asti. Da qui l’armata francese si mosse verso il Milanese dove fu accolto festosamente dal Moro. Rafforzato dai contingenti milanesi l’esercito di Carlo VIII mosse su Piacenza per poi superare il passo della Cisa e penetrare in Toscana catturando Fivizzano (29 ottobre) e successivamente attaccando la fortezza di Sarzanello.

Di fronte alla straordinaria potenza francese Piero de Medici, figlio e successore di Lorenzo il Magnifico, decise di abbandonare l’alleanza con gli aragonesi per schierarsi con Carlo a cui concesse le fortezze di Sarzanello, di Sarzana e di Pietrasanta, le città di Pisa e di Livorno con i loro porti utili alle navi francesi in appoggio all’esercito, e la via libera per Firenze. Di fronte all’arrendevolezza del loro signore i fiorentini si ribellarono e l’8 novembre cacciarono i Medici dalla città ripristinando gli ordinamenti repubblicani. Entrato nel capoluogo toscano Carlo VIII pretese una forte somma di denaro dai fiorentini minacciando in caso contrario di far suonare con le trombe l’ordine di saccheggio della città. Fu allora che, secondo la tradizione, il Gonfaloniere di Giustizia Pier Capponi rispose al Re di Francia «Se voi suonerete le vostre trombe noi suoneremo le nostre campane!» per chiamare a raccolta il popolo.
Per evitare lo scoppio di un’insurrezione Carlo VIII preferì proseguire verso sud marciando su Roma, dove il 6 gennaio 1495 fu ricevuto dal Papa Borgia, che che ne autorizzò il passaggio nei suoi stati verso Napoli dove Carlo entrò praticamente senza combattere il 22 febbraio successivo mentre Alfonso II e suo figlio Ferdinando, detto Ferrandino, erano costretti alla fuga in Sicilia. Dopo essere stato favorevolmente accolto dalla nobiltà partenopea, Carlo finì col diventare inviso ai napoletani a causa dei continui soprusi commessi dalle sue truppe. L’odio nei confronti della dominazione francese spianò la strada al ritorno degli aragonesi.

Intanto però la minaccia francese indusse Papa Alessandro VI, l’Imperatore Massimiliano I, il Re d’Inghilterra Enrico VII, la Repubblica di Venezia e Ludovico il Moro – divenuto intanto Duca di Milano in seguito alla morte sospetta del nipote – ad associarsi in una “Lega Santa” allo scopo di espellere i francesi dall’Italia. La Lega mise assieme una forza di 35 mila soldati posta al comando dell’esperto condottiero Francesco II Gonzaga, Marchese di Mantova. Temendo a quel punto di restare intrappolato in Italia Carlo VIII evacuò Napoli per risalire la Penisola in fretta e furia. Giunto nella Pianura Padana l’esercito francese si scontrò con gli alleati presso Fornovo sul Taro il 6 luglio 1495. Dopo una mischia confusa, i francesi riuscirono a disimpegnarsi dalla lotta e la notte tra il 7 e l’8 luglio levarono le tende in gran segreto riuscendo a prendere la via del Piemonte e da lì tornare in patria. Gli italiani rimasero dunque padroni del campo ma, pur vittoriosi, persero la grande possibilità di catturare il Re di Francia.

Carlo meditò una seconda spedizione in Italia ma la morte lo colse non ancora trentenne nel 1498. In mancanza di eredi diretti il trono toccò a suo cugino, il Duca d’Orleans, che divenne Re col nome di Luigi XII. Discendente di una Visconti, Valentina, Luigi si considerava legittimo pretendente al Ducato di Milano in virtù di una clausola del contratto di matrimonio di sua nonna paterna, che stabiliva come in caso di estinzione della casa viscontea, gli Orleans avrebbero ottenuto la successione dello Stato milanese.
Prima di dare inizio alla campagna italiana, Luigi XII si preoccupò di tessere una rete di alleanze volta a isolare Ludovico il Moro. Innanzitutto si accordò con Alessandro VI Borgia, promettendo di appoggiare suo figlio Cesare nei suoi propositi di conquista della Romagna. Dopodiché si assicurò l’appoggio della Confederazione svizzera e della Repubblica di Venezia, cui promise rispettivamente la Contea di Bellinzona e Cremona e la Ghiara d’Adda. A questo punto, nel luglio del 1499 il sovrano francese scese in Italia conquistando rapidamente Genova e Milano, scacciandone il Moro. Questi l’anno successivo, avendo saputo che la popolazione aveva in odio l’occupazione straniera a causa delle prepotenze dei soldati francesi, tentò la riconquista di Milano assieme al fratello cardinale Ascanio assoldando un esercito di mercenari svizzeri. La situazione gli si ritorse però contro durante l’assedio di Novara, quando gli svizzeri si rifiutarono di partecipare alla battaglia. Tradito da un mercenario, il Moro fu consegnato ai soldati di Luigi XII che lo fece deportare in Francia dove Ludovico morì prigioniero nel 1508.

Intanto l’11 novembre 1500 Luigi stipulò il trattato segreto di Granada con il quale Francia e Castiglia-Aragona si spartirono il Regno di Napoli. L’invasione francese ebbe inizio nel 1501 con il pieno appoggio di Alessandro VI che scomunicò Federico I di Napoli. Quest’ultimo, totalmente all’oscuro delle trame franco-spagnole, chiese aiuto al cugino Ferdinando il Cattolico, a cui consegnò le fortezze calabresi. Federico, accortosi troppo tardi dell’inganno, cercò di trattare la resa, ma il 19 agosto i francesi entrarono a Napoli. Presto però scoppiarono dei dissidi tra Luigi XII e Ferdinando II in merito alla spartizione della preda napoletana. Sconfitto a Cerignola e al Garigliano dagli spagnoli comandati dal “Gran Capitano” Gonzalo Fernández de Córdoba, Luigi fu costretto ad abbandonare Napoli e ritirarsi in Lombardia mentre le truppe spagnole entrarono nel capoluogo partenopeo nel maggio del 1503. Il trattato di Lione, stipulato all’inizio dell’anno successivo, confermò il dominio spagnolo su Napoli e quello francese su Milano.

Quattro anni dopo scoppio un nuovo conflitto, la terza guerra d’Italia, nota anche col nome di guerra della Lega di Cambrai, coalizione promossa dall’Imperatore Massimiliano I d’Asburgo con il coinvolgimento di Luigi XII di Francia – in quel momento padrone del Ducato di Milano – allo scopo di porre fine una volta per tutte alle velleità espansionistiche della Repubblica di Venezia. Al termine di laboriose trattative aderirono all’alleanza anche il nuovo Papa Giulio II Della Rovere – che intendeva riconquistare le città della Romagna in quel momento controllate da Venezia – Ferdinando II d’Aragona – interessato a strappare alla Serenissima i porti della Puglia – oltre che Ladislao II d’Ungheria, Alfonso I di Ferrara, Francesco II di Mantova e Carlo II di Savoia.
Sebbene, di fronte al pericolo incombente, Venezia si offrisse il 4 aprile 1509 di restituire Faenza e Rimini allo Stato della Chiesa, il 27 aprile Giulio II lanciò la scomunica sulla Serenissima e nominò il Duca di Ferrara Alfonso d’Este Gonfaloniere di Santa Romana Chiesa, ossia comandante in capo delle truppe pontificie.

Intanto il 15 aprile 1509, Luigi XII lasciò Milano a capo di un esercito francese e si mosse rapidamente in territorio veneziano. In risposta la Serenissima arruolò un esercito mercenario affidandone il comando ai condottieri Bartolomeo d’Alviano e Nicolò Orsini di Pitigliano. Il 14 maggio 1509 le truppe francesi si scontrarono con quelle veneziane nella battaglia di Agnadello, in provincia di Cremona, riportando una grande vittoria.
Venezia fu allora costretta ad abbandonare i propri possedimenti in Terraferma per concentrarsi sulla difesa della Laguna. L’affermazione del potere francese su tutta l’Italia settentrionale non più controbilanciato da Venezia, finì però col destare non poche preoccupazioni ai vari principi che ben si guardarono dal liquidare completamente la Serenissima. Anzi, entrato in urto con il sovrano francese, Papa Giulio II ritirò la scomunica contro Venezia in cambio della cessione della Romagna da parte della Serenissima. Di più: il Papa e Venezia giunsero a stipulare una vera e propria alleanza in funzione antifrancese. Mentre le truppe della Serenissima riprendevano il controllo del Veneto, il pontefice conquistò Modena, Reggio Emilia, Parma e Piacenza.

Nell’ottobre del 1511 Giulio II diede vita ad una vera e propria Lega Santa che vide l’adesione, oltre che naturalmente di Venezia e dello Stato Pontificio, anche di Ferdinando il Cattolico, di Massimiliano d’Asburgo, dei Cantoni svizzeri e persino del Re d’Inghilterra Enrico VIII. Nel mese di febbraio 1512, Luigi di Francia nominò suo nipote, Gaston de Foix, al comando delle forze francesi in Italia. Questi arrestò l’avanzata delle truppe spagnole di Ramon de Cardona in direzione di Bologna, per poi saccheggiare Brescia, che si era ribellata al dominio francese, e sconfiggere i veneziani a Valeggio. Spintosi in Emilia Romagna, Gaston de Foix riuscì a liberare Bologna dall’assedio pontificio e poi, l’11 aprile 1512, domenica di Pasqua, inflisse una durissima sconfitta agli avversari spagnoli e pontifici. Pur vittoriosi i francesi persero il loro comandante che perì a causa di un colpo di picca nelle fasi finali dello scontro.

La perdita della “Folgore d’Italia” fu un duro colpo per Luigi XII, il cui esercito, guidato da Louis de la Trémoille, venne sconfitto il 6 giugno 1513 dagli svizzeri a Novara, fatto che consentì l’insediamento di Massimiliano Sforza, figlio del Moro e di Beatrice d’Este, sul trono di Milano. Intanto nell’agosto del 1512 un esercito spagnolo guidato dal Cardona mosse contro Firenze per rovesciare la Repubblica – guidata dal Gonfaloniere Pier Soderini e che vedeva tra i suoi più alti funzionari Niccolò Machiavelli – e restaurare la signoria medicea. L’azione era stata promossa da Giulio II, irritato dal fatto che Firenze avesse offerto a Luigi XII di ospitare sul suo territorio, a Pisa, un concilio avente l’obbiettivo di deporlo.
Dopo la disfatta di Novara Luigi XII, costretto a fare fronte ad un’invasione delle truppe inglesi di Enrico VIII, fu costretto ad accantonare ogni mira su Milano. Il Re di Francia si spense il 1° gennaio 1515 lasciando il trono al cugino nonché genero – aveva sposato sua figlia maggiore Claudia di Francia – Francesco I di Valois-Angoulême. Due anni prima, il 21 febbraio 1513, si era spento un altro grande protagonista di questa fase delle guerre d’Italia, Giulio II, a cui succedette il trentasettenne Cardinale Giovanni de Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico, che divenne così Papa Leone X (r. 1513-1521).

Nel luglio del 1515, pochi mesi dopo la sua ascesa al trono, Re Francesco scese a sua volta in Italia deciso a rivendicare Milano in nome della Francia. Il sovrano transalpino era accompagnato da un’armata imponente: 11 mila cavalieri pesanti, 10 mila fanti guasconi e 23 mila lanzichenecchi. Il 13 settembre l’esercito francese si scontrò nella battaglia di Marignano – tra Melegnano e San Giuliano Milanese – con le truppe della Confederazione svizzera che di fatto controllavano il Ducato di Milano. Lo scontro fu talmente sanguinoso e vide un così alto numero di soldati coinvolti che lo storico e politico fiorentino Francesco Guicciardini la definì la “battaglia dei giganti”.
In seguito alla sconfitta la a Confederazione elvetica firmò nel 1516 il trattato di Friburgo o “della pace perpetua” che sancì la fine di ogni velleità espansionistica dei Cantoni svizzeri. Privo dell’appoggio elvetico, Papa Leone fu costretto a restituire Parma e Piacenza al Re di Francia nonché Modena e Reggio Emilia ad Alfonso I d’Este. Infine, il trattato di Noyon, firmato nel mese di agosto 1516 da Francesco e da Carlo I d’Asburgo – nipote e successore di Ferdinando il Cattolico – con la mediazione papale riconobbe le pretese francesi su Milano e quelle spagnole su Napoli, estromettendo lo stato iberico dalla guerra.

Il conflitto tra Valois e Asburgo era in ogni caso destinato a riaccendersi di lì a pochi anni. Nel 1519 Carlo riuscì a battere la concorrenza Delo stesso Francesco di Francia e a farsi eleggere Imperatore del Sacro Romano Impero con nome di Carlo V succedendo a suo nonno Massimiliano d’Asburgo. Le ostilità esplosero nel 1521 quando due armate francesi invasero l’una la Navarra e l’altra i Paesi Bassi venendo tuttavia entrambe respinte. Carlo V a quel punto strinse un’alleanza con Enrico VIII d’Inghilterra e con Papa Leone X, bisognoso dell’appoggio imperiale per contrastare la diffusione delle dottrine protestanti di Martin Lutero che proprio allora cominciavano a riscuotere grande successo in tutta la Germania.

A metà ottobre del 1524 Francesco invase la Lombardia, occupando Milano e assediando Pavia a partire dalla fine del mese. La guarnigione ispano-imperiale, composta da soli 6 mila uomini riuscì tuttavia a resistere ai 27 mila francesi fino al febbraio del 1525, quando giunse il contingente di soccorso guidato dal viceré di Napoli Carlo di Lannoy (22 mila uomini fra cui i terribili lanzichenecchi al comando di Francesco Ferdinando d’Avalos, Marchese di Pescara). I francesi si trovarono così stretti tra Pavia e l’esercito imperiale che attaccò nella notte tra il 23 e il 24 febbraio 1525. Contemporaneamente si verificò una sortita della guarnigione di Pavia. Francesco lanciò la cavalleria pesante alla carica che però si trovò ben presto circondata, finendo annientata dagli archibugieri nemici. Il Re di Francia continuò comunque a combattere strenuamente nonostante fosse stato appiedato, venendo così fatto prigioniero. Soltanto l’intervento degli ufficiali imperiali impedì che fosse ucciso a colpi di spada. La battaglia si concluse all’alba del 24 febbraio. I francesi persero circa 12 mila uomini tra morti, feriti e prigionieri contro le appena 500 perdite ispano-imperiali. Trasferito in Spagna, a seguito del disastro Francesco scrisse alla madre Luisa di Savoia “Tutto è perduto fuorché l’onore!”

Resosi conto a quel punto del pericolo costituito dall’egemonia asburgica sulla Penisola, Papa Clemente VII – al secolo Giulio de Medici, nipote di Lorenzo il Magnifico – abbandonò l’alleanza con Carlo V promuovendo la formazione di una coalizione anti-imperiale, la Lega di Cognac formata da Francia, Venezia, Firenze, Milano e Genova. Per tutta risposta nella primavera del 1527 un esercito imperiale irruppe in Italia puntando decisamente su Roma. L’assalto alle mura ebbe inizio il 6 maggio nel settore fra i colli del Gianicolo e del Vaticano. Nonostante la disperata resistenza delle truppe pontificie i 20 mila lanzichenecchi ebbero presto ragione dei difensori penetrando nel rione di Borgo, dove sorge la Basilica di San Pietro. Papa Clemente VII riuscì a fuggire nell’imprendibile Castel Sant’Angelo grazie all’eroico sacrificio dei suoi fedeli svizzeri che si fecero massacrare per coprirne la fuga.
La Città Eterna cadde così nelle mani di uomini feroci, frustrati dalla mancata corresponsione della paga e ormai privi di qualunque controllo, avendo perso il comandante nell’assalto alle mura. Per rifarsi diedero il via ad un saccheggio tale da far impallidire quelli dei Goti e dei Vandali avvenuti nell’Antichità: in gran parte luterani, i lanzichenecchi agirono certamente anche animati da un fanatico odio religioso infierendo in modo particolare su San Pietro, distruggendo tutto ciò che non riuscirono ad asportare. Le splendide Stanze di Raffaello furono trasformate in stalle, le chiese in accampamenti e bordelli, numerosi religiosi vennero torturati e trucidati mentre decine di monache furono brutalmente violentate. La ferocia mostrata dai soldati di Carlo V lasciò interdetta l’Europa intera.

Il sacco di Roma produsse un terremoto nella politica italiana: a Firenze la cittadinanza si sollevò nuovamente contro il potere dei Medici, cacciando i due giovanissimi signori, i cugini Ippolito e Alessandro de Medici, e restaurando la Repubblica, mentre a Genova l’abile politico, finanziere e ammiraglio Andrea Doria indusse la Superba ad abbandonare la tradizionale alleanza con la Francia per schierarsi al fianco di Carlo. Il superamento del contrasto tra Papa e Imperatore si ebbe nel giugno del 1529 con la firma del trattato di Barcellona, con cui, in cambio dell’appoggio alle iniziative militari di Carlo contro turchi e protestanti, Clemente VII ottenne la restaurazione della signoria medicea su Firenze. Poco tempo dopo (agosto 1529) Carlo siglò con Francesco I la Pace di Cambrai – detta anche “pace delle due dame”, poiché non venne negoziata direttamente dai due sovrani, ma da Luisa di Savoia, madre di Francesco I, e da Margherita d’Asburgo, zia di Carlo V – in conseguenza della quale il Re di Francia ribadiva la sua rinuncia a ogni pretesa in Italia.

Di lì a un anno, nel febbraio del 1530 Carlo V si recò a Bologna, dove ricevette l’omaggio dei principi italiani e venne incoronato Imperatore e Re d’Italia dallo stesso Clemente VII. Intanto a partire dal 14 ottobre 1529 le truppe del Viceré di Napoli Filiberto d’Orange, costituite da spagnoli e lanzichenecchi, posero l’assedio a Firenze. Nonostante la valorosa resistenza dei difensori, capeggiata da Francesco Ferrucci, un mercante improvvisatosi guerriero, la Repubblica fiorentina cadde il 12 agosto 1530 per il tradimento del capitano generale Malatesta Baglioni. La restaurata signoria medicea fu affidata ad Alessandro de Medici, presunto figlio di Clemente VII, che di lì a poco il Pontefice investì del titolo di Duca.
Altri conflitti franco-asburgici vennero combattuti tra il 1535-37 e il 1542-44 ma Francesco I perse definitivamente il controllo di Milano che, dopo la morte senza eredi dell’ultimo Duca della dinastia sforzesca, Francesco II, entrò definitivamente a fare parte dei domini asburgici. A partire dal 1552 il nuovo Re di Francia Enrico II, figlio e successore di Francesco, intraprese una nuova serie di campagne contro Carlo V alleandosi con i principi protestanti tedeschi e con il pontefice Paolo IV Carafa.

Tuttavia Enrico, sconfitto pesantemente alla battaglia di San Quintino nel 1557 e con il regno sull’orlo della bancarotta fu costretto a firmare nel 1559 la pace di Cateau-Cambrésis con Filippo II, figlio di Carlo V e suo successore nei possedimenti iberici. In base all’accordo la Spagna vide confermata la sua egemonia sull’Italia, garantita dal possesso di Milano, Napoli, Sicilia e Sardegna e rafforzata dalle solide alleanze con il Duca di Savoia Emanuele Filiberto, il Duca di Firenze Cosimo I de Medici e la Repubblica di Genova.
Le guerre d’Italia, oltre che la fine della libertà degli staterelli della Penisola – ricchi ma incapaci di difendersi efficacemente dalle minacce esterne – rappresentarono anche per l’intera Europa un momento fondante del nuovo sistema diplomatico-militare delle grandi potenze, Spagna e Francia in primis, che dimostrarono di poter mobilitare forze assolutamente sproporzionate rispetto alle piccole realtà regionali italiane. La corona spagnola, uscita trionfatrice al termine di decenni di conflitti, vide infine riconosciuta la propria egemonia sull’Italia, destinata a protrarsi per quasi due secoli.