LA STORIA DELLA REPUBBLICA ROMANA: DALLA FUGA DI PAPA PIO IX ALL’ATTACCO FRANCESE CONTRO ROMA
“Se il papa è andato via/ buon viaggio e così sia! Non morirem d’affanno/ perché fuggì un tiranno/ perché si ruppe il canapo che ci legava il piè!” così cantavano i cittadini romani per le strade dell’Urbe al principio del febbraio 1849. Il 9 di quello stesso mese era stata decretata la fine del potere temporale della Chiesa e la nascita della Repubblica Romana. Papa Pio IX aveva lasciato la Città Eterna già la sera del 24 novembre 1848, preoccupato per la piega che stavano prendendo gli eventi: il 15 novembre, nove giorni prima, il primo ministro del governo pontificio, il conte Pellegrino Rossi, era stato accoltellato a morte da soggetti la cui identità non fu mai accertata.

Per capire come si fosse arrivati a quel punto occorre fare un salto indietro all’anno precedente. Il 1848 fu, dal punto di vista politico e sociale, un anno estremamente agitato. In quei dodici mesi l’intero continente europeo fu messo a soqquadro da decine di insurrezioni: da Parigi a Berlino, da Vienna a Palermo, da Milano a Budapest i sudditi dei vari regni insorsero contro i loro governanti. Ovunque la parola d’ordine era naturalmente “Libertà!”, che da noi andava a braccetto con un’altra, ovvero “Indipendenza”. Complessivamente l’impatto delle manifestazioni fu tale che ancora oggi per definire un a situazione di scompiglio si usa dire “E’ successo un quarantotto!”.
La scintilla del grande incendio scoccò a Palermo, agli inizi di gennaio. Dopo la Restaurazione l’antico Regno di Sicilia era stata inglobato nel nuovo Regno delle Due Sicilie, la cui capitale fu posta a Napoli. Il 12 gennaio 1848 i siciliani, proclamando decaduta la dinastia borbonica, insorsero allora per l’indipendenza della loro isola. Pressato dai suoi ministri, l’11 febbraio il sovrano napoletano Ferdinando II fu allora costretto a concedere una Costituzione, seguito a ruota il 17 dal Granduca di Toscana Leopoldo II e da Re Carlo Alberto di Savoia, che il 4 marzo promulgò il celebre Statuto che da lui prese il nome. Addirittura anche il Pontefice, Pio IX, accettò di limitare il proprio potere assoluto emanando il 14 marzo uno “Statuto fondamentale per il governo dello Stato di S. Chiesa”.

Questa concessione rappresentava l’apice delle riforme intraprese dal Pontefice sin da quando, nel 1846, l’allora cinquantaquattrenne cardinale Giovanni Mastai Ferretti era stato eletto al Soglio Pontificio con il nome di Pio IX. La notizia suscitò grandi speranze in coloro che auspicavano una svolta nel governo della Chiesa, dopo i pontificati dei “reazionari” Leone XII (1823-1829) e Gregorio XVI (1831-1846). Pio IX aveva in effetti fama di “liberale” sin da quando era ancora Arcivescovo di Spoleto e in effetti nei primi due anni del suo pontificato il Papa non deluse le aspettative di quanti chiedevano riforme elargendo, non appena eletto, una generosa amnistia per i reati politici, a cui fecero seguito, in ordine, l’allentamento della censura governativa sulla stampa, la costituzione di una guardia civica oltre all’emancipazione degli ebrei romani, con il simbolico abbattimento delle mura che circondavano il ghetto.
Quando poi, nel 1847, Pio IX si fece promotore di una lega doganale fra gli stati italiani parve davvero che Papa Mastai Ferretti potesse essere davvero quel Pontefice liberale auspicato da pensatori come l’abate piemontese Vincenzo Gioberti, il quale, nel suo Del primato morale e civile degli italiani, datato 1843, proponeva per l’Italia la costituzione di una confederazione di stati ciascuno dei quali avrebbe conservato il proprio sovrano ma sotto la presidenza del Papa. I fatti successivi tuttavia dimostrarono come la soluzione “neoguelfa” di Gioberti non fosse altro che un’illusione.

I limiti del “liberalismo” di Pio IX vennero alla luce in tutta la loro evidenza in quella fatale primavera del 1848. A marzo Carlo Alberto di Savoia decise di accorrere in aiuto dei patrioti veneti e lombardi, i quali erano insorti contro la dominazione asburgica. Il 23 marzo, giorno successivo alla cacciata della guarnigione austriaca da Milano, l’esercito piemontese attraversò il Ticino inalberando il Tricolore. Cominciava così quella che nei manuali scolastici è chiamata la Prima guerra d’indipendenza italiana.
L’iniziativa sabauda suscitò grandi entusiasmi negli ambienti patriottici di tutta la Penisola e indusse i sudditi dei vari stati a fare pressioni sui propri sovrani affinchè acconsentissero all’invio di contingenti militari a sostegno della causa italiana. Dal canto suo Pio IX ordinò l’inviò nella Pianura Padana di un contingente di circa 18 mila soldati papalini comandati dal generale piemontese Giovanni Durando. Tuttavia il Papa non condivideva le ragioni di fondo della “guerra italiana” ritenendo in buona sostanza che l’unico che avrebbe avuto da guadagnarci da un’eventuale sconfitta dell’Austria sarebbe stato Carlo Alberto che si sarebbe impossessato delle ricche province venete e lombarde. Dello stesso avviso di Pio IX erano anche il Re di Napoli Ferdinando II e il Granduca di Toscana Leopoldo II.

La guerra assunse inizialmente un andamento molto favorevole alle forze sabaude, le quali colsero una serie di straordinarie vittorie contro le disorientate truppe imperiali dapprima al ponte di Goito (8 aprile) e poi a Pastrengo (30 aprile), arrivando persino a espugnare la piazzaforte di Peschiera (30 maggio), che insieme a Mantova, Legnago e Verona costituiva il famigerato “Quadrilatero” a difesa del Veneto. Fu allora che Pio IX, nel concistoro del 29 aprile 1848 pronunciò l’allocuzione Non semel, con la quale in definitiva si defilava dalla guerra adducendo che il suo ruolo di capo della Chiesa gli impediva di prendere le armi contro una potenza cattolica come l’Austria. Per i patrioti romani fu una doccia fredda. Il mito del “Papa patriota” andò definitivamente in frantumi evidenziando in maniera inequivocabile come il progetto di un’Italia unificata sotto l’egida della Chiesa fosse pura utopia.
Mentre la “crociata nazionale” abortiva clamorosamente, nel Veneto l’avanzata delle forze sabaude venne arrestata dal contrattacco dell’esercito austriaco del maresciallo Radetzky, il quale, una volta ricevuti gli attesi rinforzi, sferrava la sua offensiva sbaragliando i piemontesi a Custoza (in provincia di Verona). Carlo Alberto, consigliato dai suoi ufficiali, ordinò alle proprie stanche e demoralizzate truppe di ritirarsi dietro il Ticino, abbandonando la Lombardia alla mercé degli austriaci, che rientrarono a Milano il 6 agosto, mentre tre giorni dopo veniva firmato l’armistizio di Salasco che poneva fine alle ostilità tra Piemonte e Austria. A quel punto le forze imperiali poterono proseguire l’avanzata varcando il Po invadendo le Legazioni pontificie della Romagna per riportare l’ordine.

A Roma intanto Pio IX, conscio del malcontento popolare, il 16 settembre cercò di riprendere il controllo della situazione nominando capo del governo il conte Pellegrino Rossi, il quale adottò un atteggiamento conciliante tra le posizioni dei patrioti e della Curia, finendo tuttavia per scontentare tutti e non convincere nessuno. Come abbiamo detto in apertura però, il 15 novembre la situazione precipitò. Quel giorno infatti ignoti attentatori accoltellarono a morte il Conte Rossi sulla scalinata del Palazzo della Cancelleria. E’ probabile tuttavia che l’assassino di Rossi sia stato Luigi Brunetti, figlio dell’oste e carrettiere Angelo Brunetti, meglio conosciuto come Ciceruacchio. Questi, dopo essere stato tra i maggiori sostenitori delle riforme di Pio IX, era rimasto deluso dalla scelta del Papa di svincolarsi dalla guerra contro l’Austria.
Con la situazione ormai fuori controllo, la sera del 24 novembre Pio IX preferì così lasciare Roma travestito da semplice prete, riparando a Gaeta, sotto la protezione di Ferdinando II di Borbone. Dal suo esilio, il Papa dichiarò illegittima e usurpatrice la Giunta nel frattempo costituitasi in Roma esercitandovi di fatto le funzioni di governo provvisorio. Infischiandosene degli anatemi papali la Giunta indisse per il 21 gennaio le elezioni a suffragio universale per l’elezione dei Rappresentanti all’Assemblea Costituente.

Nonostante le scomuniche, le minacce e le intimidazioni l’affluenza al voto fu molto alta. E’ interessante sottolineare che parecchi furono i membri del clero che scelsero di recarsi alle urne. Le elezioni sancirono la netta vittoria delle forze democratiche. Tra i 179 “Rappresentanti del Popolo” furono eletti anche Mazzini e Garibaldi, rientrato nel frattempo dal Sud America dopo quindici anni di esilio e reduce dai combattimenti della prima guerra d’indipendenza.
Il 9 febbraio 1849, l’Assemblea, riunitasi per la seduta inaugurale sotto la presidenza del principe Carlo Luciano Bonaparte, proclamò la nascita della Repubblica Romana, dichiarando il Papato decaduto “di fatto e di diritto dal governo temporale dello Stato Romano”. Il nuovo stato era retto da un Triumvirato composto da Carlo Armellini, Giuseppe Mazzini e Aurelio Saffi. Mentre prendeva forma l’assetto istituzionale della Repubblica, il 18 febbraio Pio IX lanciò un appello alle maggiori potenze cattoliche, Austria, Francia, Spagna e Regno delle Due Sicilie affinché ne restaurassero il potere sull’Urbe.

Appena nata dunque, la Repubblica Romana era già sotto attacco. Gli austriaci, sconfitti una volta per tutte i piemontesi che avevano voluto riprendere la guerra, infliggendo loro la batosta di Novara del 23 marzo 1849, ebbero finalmente mano libera per invadere le Marche e mettere sotto assedio Ancona il 24 maggio. Contemporaneamente un corpo di spedizione di 7 mila francesi al comando del generale Nicolas Oudinot sbarcava a Civitavecchia alla fine di aprile. Per non alienarsi il consenso della destra conservatrice e clericale, infatti, il neo Presidente della Repubblica Luigi Napoleone Bonaparte, cugino del già citato Carlo Luciano, decise di intervenire in aiuto del papa, rinnegando così il proprio passato di cospiratore e rivoluzionario in Italia. Anche Ferdinando II di Borbone volle partecipare all’attacco contro la Repubblica inviando un’armata di 8.500 soldati.

La situazione militare per gli insorti era quindi piuttosto difficile. La città di Roma non disponeva di difese adeguate alla guerra ottocentesca visto che tanto le più recenti Mura gianicolensi, la cui costruzione risaliva al Seicento, quanto, naturalmente, le antiche Mura aureliane non erano state progettate per resistere ad un bombardamento di artiglieria. Per resistere agli attacchi nemici la Repubblica Romana avrebbe potuto contare quindi soltanto sul coraggio dei suoi difensori.
La responsabilità dell’organizzazione delle forze armate toccò al ministro della guerra, il piemontese Giuseppe Avezzana, ed al comandante in capo dell’esercito, il maggiore romano Pietro Roselli, ex ufficiale pontificio. Dentro Roma era stato radunato un esercito di tutto rispetto, forte di circa 19 mila combattenti di cui 10 mila erano soldati professionisti appartenenti all’esercito papalino, passati al servizio del nuovo regime. Questi erano appoggiati da tredici battaglioni di volontari, di cui dodici della Guardia Civica e uno universitario. In città erano poi affluiti un gran numero di volontari, italiani certo, ma anche stranieri, tutti decisi a difendere la Repubblica e gli ideali di libertà e democrazia da essa rappresentati. In questa variopinta schiera di combattenti irregolari spiccavano i 1.200 uomini della Legione Italiana guidati da Garibaldi, alcuni dei quali avevano seguito il loro comandante addirittura dal Sud America, come nel caso dell’afro-brasiliano Andrea Aguyar, un ex schiavo noto come “il Nero di Garibaldi”.

Ricordiamo poi i 600 bersaglieri lombardi del ventiquattrenne colonnello milanese Luciano Manara, reduce delle Cinque Giornate di Milano. Tanto i garibaldini quanto gli uomini di Manara erano reduci della sfortunata prima guerra d’indipendenza, combattuta a fianco dell’esercito piemontese. Tra i volontari stranieri non mancavano patrioti che sognavano l’emancipazione del proprio popolo dal giogo straniero, come i polacchi, oppure esuli politici, come i francesi, perseguitati in patria dal regime del Presidente Luigi Napoleone Bonaparte.
Il generale Oudinot, convinto di avere gioco facile contro gli insorti forte della convinzione secondo cui “gli italiani non si battono”, sferrò un primo attacco contro Roma nella mattinata del 30 aprile 1849 venendo facilmente respinto. Non solo, ma Garibaldi, osservando con che facilità aveva ottenuto la vittoria, ordinò un massiccio contrattacco contro i transalpini, infliggendo loro una batosta memorabile. Mentre il borioso Oudinot, messo temporaneamente a tacere, preferiva intavolare trattative coi repubblicani, l’Eroe di Nizza guidò un esercito di ben 11 mila uomini verso sud, incontro alle forze borboniche. Il 19 maggio 1849 Garibaldi vinse l’Esercito delle Due Sicilie alla battaglia di Velletri, il che indusse Ferdinando II a ritirarsi dal conflitto e rinunciare all’invasione. Proprio quando le cose parevano mettersi bene per la Repubblica, però, il vento cominciò a cambiare. Oudinot infatti aveva soltanto temporeggiato quanto bastava a ricevere rinforzi e una volta ottenutoli interruppe la tregua e riprese l’attacco il 4 giugno. Ora il comandante francese poteva contare ai suoi ordini 30 mila soldati e 75 cannoni. Garibaldi con il suo vittorioso esercito fecero ritorno a Roma per il primo giugno, appena in tempo per prender parte alla difesa della Repubblica contro il nuovo attacco francese.

Il comando francese, contrariamente a quanto dichiarato ufficialmente, anticipò l’inizio dell’offensiva, che prese il via nella notte fra il 2 e il 3 giugno. I soldati transalpini attaccarono nel settore del Gianicolo, cogliendo di sorpresa i difensori repubblicani, attestati nei pressi di Villa Pamphili e Villa Corsini, che furono costretti a lasciare le loro posizioni per attestarsi a Villa Givaud, nota come “Villa del Vascello”, per via della sua forma, simile appunto a quella di una nave. Gli italiani non si diedero per vinti, tanto che contrattaccarono nel tentativo di riprendere il controllo delle posizioni perdute. Nel corso di quel sanguinoso 3 giugno le ville gianicolensi furono oggetto di feroci scontri ma nonostante l’eroismo dei patrioti italiani, alla fine della giornata i francesi erano saldamente attestati a ridosso delle mura e controllando il Tevere da nord ponevano di fatto il blocco alla città. I repubblicani pagarono il loro coraggio con 110 caduti, fra i quali figuravano i varesini Francesco Daverio, garibaldino, Enrico Dandolo, bersagliere di Manara. Negli scontri a Villa Corsini restò ferito alla gamba sinistra anche il genovese Goffredo Mameli, autore del Canto degli Italiani, futuro inno nazionale italiano. Trasportato nelle retrovie Mameli sarebbe spirato il 6 luglio a causa della cancrena che aveva colpito l’arto.

Dalle loro posizioni, il 13 giugno i francesi iniziarono allora a cannoneggiare la città. Gli assedianti tagliarono anche gli acquedotti ma nonostante la fame e la sete i romani non intendevano arrendersi. La resistenza della Repubblica Romana fu spezzata definitivamente soltanto il 30 giugno 1849, quando, alle 2 del mattino, il generale Oudinot scatenò tutte le forze a sua disposizione nell’assalto generale alle mura di Roma e da quel momento qualunque opposizione da parte dei repubblicani fu inutile. La mattinata fu segnata da feroci scontri durante i quali persero la vita 400 difensori, fra i quali Luciano Manara, il bersagliere lombardo Emilio Morosini, appena diciannovenne e il “Moro di Garibaldi” Andrea Aguyar. Preso atto della situazione disperata, il 1° luglio Mazzini dichiarò che l’unica alternativa alla capitolazione era la resistenza entro la città, il che avrebbe provocato soltanto nuove distruzioni materiali e causato inutili sofferenze alla popolazione civile. L’Assemblea Costituente approvò dunque il decreto di resa, mentre Mazzini e il triumvirato davano le dimissioni per non essere costretti firmare la capitolazione.
Prima di sciogliersi una volta per tutte, il 3 luglio l’Assemblea Costituente approvò simbolicamente il testo della Costituzione della Repubblica Romana. Quello stesso giorno il generale Oudinot faceva il suo ingresso in città. I francesi comunque permisero agli ex combattenti romani di lasciare indisturbati la Città Eterna. Mazzini ad esempio restò a Roma fino al 12 luglio, mentre Garibaldi partì già il 2, accompagnato dalla moglie Anita e da circa 4 mila fedeli deciso a continuare la guerriglia rivoluzionaria nelle province dello Stato Pontificio. Una volta lasciata l’Urbe però il Generale dovette rendersi conto che l’Agro Romano non era la pampa argentina e che la popolazione dell’Italia centrale, di fronte alla vittoria totale delle forze reazionarie, non si sarebbe sollevata. Garibaldi decise allora di giocarsi il tutto per tutto cercando di raggiungere Venezia, che caparbia resisteva al blocco austriaco. Tuttavia le forze garibaldine finirono ben presto nel mirino dell’esercito asburgico tanto che la marcia divenne presto una fuga disperata.
Diradata dalle frequenti diserzioni, la colonna, che ormai contava a mala pena mille elementi, giunse a San Marino dove il governo della piccola Repubblica si offrì di trattare una resa con gli austriaci per conto degli insorti in cambio del loro disarmo ma i fuggiaschi non si fidarono delle offerte del maresciallo Radetzky e preferirono proseguire. Con le poche centinaia di fedeli rimastigli il 31 luglio Garibaldi giunse a Cesenatico dove si impadronì di alcune imbarcazioni da pesca con le quali tentare di navigare fino a Venezia. La minuscola flotta finì ben presto intercettata dalle navi della marina imperiale, che catturò otto barche su tredici. A quel punto il minuscolo pugno di patrioti superstiti si disperse cercando soltanto di salvare la pelle. Molti però furono comunque intercettati dalle pattuglie asburgiche e fucilati sommariamente.

L’8 agosto vennero giustiziati il patriota milanese Giovanni Livraghi e il frate barnabita Ugo Bassi, romagnolo di Cento. Due giorni dopo la stessa sorte toccò anche a Ciceruacchio, passato per le armi assieme ai figli Luigi e Lorenzo, quest’ultimo di soli tredici anni. Garibaldi riuscì invece, pur dopo mille peripezie, a mettersi in salvo ma il 4 agosto perse la moglie Anita, la quale, incinta, venne sopraffatta dalle febbri che l’affliggevano da giorni.
Con la sconfitta della Repubblica Romana e infine con la caduta di Venezia, avvenuta il 23 agosto 1849, si concluse l’esperienza del Quarantotto in Italia. Il bilancio del biennio rivoluzionario era da considerarsi pesantemente negativo: tutti i programmi indipendentistici e unitari erano falliti. La reazione austriaca e francese contribuì a restaurare i vecchi stati nei loro confini e a rimettere i sovrani spodestati sui loro troni. Nonostante ciò la frattura fra i sudditi e i sovrani reinsediati dalle baionette straniere era ormai netta e incolmabile e ciò divenne evidente soprattutto a Roma, dove Pio IX rientrato nell’Urbe il 12 agosto 1850, trovò ad accoglierlo una città ben diversa da quella che lo aveva acclamato sino a prima della rivoluzione.

Nonostante l’amarezza per la sconfitta, occorre però registrare un fatto molto importante avvenuto nel corso del Quarantotto: per la prima volta le idee patriottiche avevano fatto breccia anche presso gli strati popolari, soprattutto nelle città. Numerosi erano stati i popolani che a Milano Palermo, a Bologna, Venezia, Brescia, Genova e Roma avevano scelto di imbracciare il fucile e di battersi per gli ideali rappresentati dal Tricolore. Questa partecipazione di massa non passò inosservata, non mancando di suscitare grandi simpatie per la causa italiana presso le opinioni pubbliche di Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia, dove ci si rese conto che l’Italia dopotutto non era solamente “un’espressione geografica” come affermato a sua tempo dal cancelliere austriaco Metternich. Tutto questo si sarebbe rivelato decisivo dieci anni più tardi nell’influenzare la scelta dei governi di quegli stessi Paesi verso la decisione di appoggiare diplomaticamente e, nel caso francese, anche militarmente, il nuovo tentativo di “fare l’Italia” messo in atto dal piccolo Piemonte di Cavour e di Vittorio Emanuele II.
Un pensiero riguardo “Dio e Popolo!”