Quest’anno ricorre il 550° anniversario della nascita di uno dei massimi interpreti dell’arte universale, Michelangelo Buonarroti. Artista poliedrico, fu pittore e scultore ma anche architetto e persino poeta. Con il suo talento straordinario e la sua visione unica, Michelangelo ha trasformato il Rinascimento, lasciando opere iconiche come il David, la Pietà e gli affreschi della Cappella Sistina. La sua vita e il suo lavoro, segnati da una costante tensione tra perfezione artistica e lotte interiori, hanno segnato la sua epoca continuando ad ispirare le generazioni future.

Benché la sua famiglia fosse originaria di Firenze Michelangelo nacque il 6 marzo 1475 a Caprese, piccolissimo borgo del Casentino, in provincia di Arezzo. Secondo di cinque fratelli, il futuro artista era figlio di Ludovico di Leonardo Buonarroti, che esercitava le funzioni di podestà del borgo, e di sua moglie Francesca di Neri del Miniato del Sera. Verso la fine del mese la famiglia tornò a Settignano, frazione di Firenze, e il piccolo Michelangelo fu affidato ad una balia locale, originaria, secondo un celebre aneddoto, di una famiglia di scultori e scalpellini. Divenuto un artista di fama, Michelangelo avrebbe allora spiegato la sua predilezione per la scultura, affermando di avere assunto dalla balia «latte impastato con la polvere di marmo».
La famiglia Buonarroti apparteneva al patriziato fiorentino ma al tempo della nascita di Michelangelo attraversava un periodo di difficoltà finanziarie al punto che suo padre Ludovico stava addirittura per perdere i suoi privilegi di cittadino fiorentino. L’aver accettato un incarico poco prestigioso e scarsamente retribuito come la podesteria di Caprese si spiega con la volontà di assicurare alla famiglia una sopravvivenza decorosa. Dato lo status sociale del casato, nessuno degli antenati di Michelangelo aveva mai intrapreso la carriera artistica. Benché pittori e scultori contribuissero a fare di Firenze uno dei maggiori centri del Rinascimento italiano, essi erano considerati alla stregua di artigiani, dediti a quelle “arti meccaniche” giudicate non consone per un membro del patriziato. Date queste premesse l’aver mandato un figlio “a bottega” come si dice a allora dovette essere vissuto da Ludovico Buonarroti come una retrocessione dal punto di vista sociale.

Nel 1487 il dodicenne Michelangelo fu così ammesso come apprendista nella bottega di Domenico Bigordi, detto il Ghirlandaio, uno degli artisti più quotati dell’epoca. A quel tempo il maestro era impegnato nella realizzazione del ciclo di affreschi della Cappella Tornabuoni in Santa Maria Novella. Sotto la sua supervisione Michelangelo apprese le tecniche fondamentali della pittura e del disegno, distinguendosi per abilità e dedizione. Addirittura il giovane Buonarroti avrebbe “corretto” alcuni disegni del Ghirlandaio o dei suoi assistenti, migliorandoli con dettagli più precisi e realistici. Questo gesto fu visto come una sfida all’autorità del maestro, che non apprezzò affatto l’atteggiamento di sfida del proprio allievo. Secondo quanto riportato dal suo biografo Ascanio Condivi, pare che Michelangelo non completò pertanto il triennio di apprendistato. In ogni caso, pare che su suggerimento di un altro apprendista, Francesco Granacci, Michelangelo cominciò a frequentare il giardino di San Marco, una sorta di accademia d’arte fondata da Lorenzo il Magnifico.

Qui, sotto la guida dello scultore Bertoldo di Giovanni, Michelangelo poté dedicarsi interamente alla scultura e approfondire la conoscenza dell’arte classica, studiando da vicino le antiche statue greche e romane collezionate dai Medici. Al Signore di Firenze non sfuggì l’eccezionale talento del giovanissimo artista, che venne introdotto nella corte medicea. Questa esperienza espose Michelangelo a un ambiente culturale vibrante, permettendogli di interagire con i più grandi intellettuali e artisti dell’epoca. Durante questo periodo, realizzò opere come la “Madonna della Scala” e la “Battaglia dei Centauri”, entrambe testimonianze della sua precoce maestria scultorea.
Lorenzo il Magnifico morì appena quarantatreenne l’8 aprile del 1492. A succedergli nella leadership su Firenze fu il figlio primogenito, Piero, descritto come un tiranno “insolente e soverchievole”. I rapporti tra Michelangelo e il suo quasi coetaneo mecenate – Piero aveva appena tre anni in più – dovettero essere piuttosto difficili. Nonostante ciò l’artista non esitò ad accontentare il proprio capriccioso signore come quando, in occasione di una pesante nevicata che colpì Firenze nel gennaio del 1494, gli venne commissionata la creazione di una statua di neve con le fattezze di Ercole nel cortile di Palazzo Medici. L’opera rimase visibile otto giorni, giusto in tempo per essere ammirata con stupore da tutta la città.

Di lì a pochi mesi tuttavia la situazione politica a Firenze precipitò. Accusato di eccessiva accondiscendenza nei confronti del monarca francese Carlo VIII, Piero fu bandito assieme a tutta la famiglia dal territorio della Repubblica Fiorentina. Resosi conto dell’imminente crollo politico del suo mecenate, Michelangelo, al pari di molti artisti dell’epoca, abbracciò i nuovi valori spirituali e sociali propugnati da Girolamo Savonarola, priore del convento domenicano di San Marco, che nelle sue infiammate prediche aveva denunciato a più riprese la decadenza dei costumi e il carattere paganeggiante e tirannico del regime mediceo, propugnando nello stesso tempo una riforma della Chiesa. Michelangelo di lì a poco lasciò Firenze alla volta di Bologna, dove lavorò al completamento della prestigiosa Arca di san Domenico scolpendo un San Procolo, un Angelo reggicandelabro e terminando il San Petronio iniziato da Niccolò dell’Arca. Rientrato a Firenze nel dicembre 1495, Michelangelo trovò una città dominata dal governo repubblicano di ispirazione savonaroliana, di cui faceva parte anche un Medici, Lorenzo di Pierfrancesco, detto il Popolano, un lontano cugino del Magnifico.

Questi prese Michelangelo sotto la propria ala protettrice commissionandogli due sculture, entrambe perdute, un San Giovannino e un Cupido dormiente. Il cupido in particolare finì al centro di una vicenda che avrebbe avuto importanti risvolti nella vicenda artistica di Michelangelo. Probabilmente a insaputa dell’artista la statua fu infatti sotterrata e poi patinata in modo tale da farla sembrare un reperto archeologico. A quel punto, con l’intermediazione del mercante Baldassarre Del Milanese, l’opera fu rivenduta al prezzo di ben duecento fiorini a Raffaele Riario, cardinal-nipote di Papa Sisto IV Della Rovere.
Ben presto Sua Eminenza venne a sapere di essere stato truffato e richiese indietro i propri soldi ma contemporaneamente volle chiamare presso di sé a Roma quel giovane e talentuoso scultore. Michelangelo partì alla volta dell’Urbe dove giunse alla fine di giugno del 1496 e di lì a poco iniziò a lavorare alla statua di Bacco, rappresentato come un giovane nudo in preda all’ebrezza. Il Bacco è una delle poche opere perfettamente finite di Michelangelo e dal punto di vista tecnico segna il suo ingresso nella maturità artistica. A questo primo soggiorno romano risale pure un altro celebre capolavoro del Buonarroti, la Pietà, commissionatagli dal cardinale francese Jean de Bilhères de La Groslaye. Il gruppo, fortemente innovativo rispetto alla tradizione scultorea delle Pietà tipicamente nordica, venne sviluppato con una composizione piramidale, con la Vergine come asse verticale e il corpo morto del Cristo come asse orizzontale, mediate dal massiccio panneggio.

La finitura dei particolari venne condotta alle estreme conseguenze, tanto da dare al marmo effetti di traslucido e di cerea morbidezza. Entrambi i protagonisti mostrano un’età giovane, tanto che sembra che lo scultore si sia ispirato al passo dantesco “Vergine Madre, Figlia di tuo Figlio”. Nel 1501 Michelangelo decise di fare rientro a Firenze. Una volta tornato in città l’Opera del Duomo gli affidò ad esempio una colossale statua del David da collocare in uno dei contrafforti esterni posti nella zona absidale della cattedrale. Il blocco di marmo assegnato all’artista era già stato parzialmente lavorato nei decenni precedenti e questo costituiva un ulteriore elemento di difficoltà. Il risultato fu uno dei maggiori esempi della statuaria di tutti i tempi, che secondo il suo creatore avrebbe dovuto essere la personificazione delle libertà repubblicane. Quando tre anni dopo l’inizio dei lavori l’opera venne infine mostrata al pubblico, i fiorentini riconobbero immediatamente la statua come un capolavoro. La Signoria decise di farne il simbolo della città e incaricò una commissione di artisti affinché individuassero il punto più adatto alla sua collocazione. Alla fine fu deciso che il David avrebbe trovato sede direttamente in Piazza della Signoria, di fronte a Palazzo Vecchio.

Gli anni iniziali del XVI secolo furono estremamente impegnativi per Michelangelo, che oltre al David fu incaricato di diverse altre commissioni, sia scultoree – la Madonna col Bambino (1503) richiestagli dal mercante di panni fiammingo Alexandre Mouscron per la sua cappella familiare a Bruges, il Tondo Pitti (1503-1505) realizzato in marmo su commissione di Bartolomeo Pitti e il Tondo Taddei (1504-1506) commissionato da Taddeo Taddei – sia pittoriche, come il famoso Tondo rappresentante la Sacra Famiglia realizzato nel 1504 in occasione delle nozze fra il ricco mercante Agnolo Doni e Maddalena Strozzi. L’artista stipulò anche altri contratti che tuttavia non poterono essere onorati a causa di varie vicissitudini. Uno di questi era rappresentato dalle dodici statue marmoree a grandezza naturale degli Apostoli, destinate a decorare le nicchie nei pilastri che reggono la cupola di Santa Maria del Fiore, delle quali l’artista fece in tempo a sbozzare solo un San Matteo, uno dei primi, vistosi esempi di non-finito. Ma forse l’esempio più noto è quello costituito dalla Battaglia di Cascina, un affresco che avrebbe dovuto decorare il Salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio assieme all’altro grande capolavoro perduto di Leonardo da Vinci, la Battaglia di Anghiari.

L’opera rimase allo stato di cartone preparatorio – oggi perduto – e non progredì oltre a causa della partenza di Michelangelo per Roma. A richiamare il maestro nella Città Eterna era nientemeno che il nuovo Pontefice Giulio II Della Rovere. Il Papa intendeva affidare a Michelangelo la realizzazione della sua tomba monumentale, che Giulio II avrebbe voluto fosse collocata nella Basilica di San Pietro. Il primo progetto prevedeva una colossale struttura architettonica isolata nello spazio, composta da tre ordini con una quarantina di statue, dimensionate in scala superiore al naturale. Tuttavia, mentre Michelangelo sceglieva i marmi a Carrara il Papa si volse a nuove imprese quali la riedificazione di San Pietro e la riconquista di Perugia e Bologna. Inoltre il Papa, consigliato forse dal Bramante che non nascondeva la sua rivalità con Michelangelo, era venuto alla conclusione che occuparsi della propria sepoltura fosse di cattivo auspicio. Deluso e amareggiato Michelangelo lasciò Roma per tornarsene a Firenze mandando su tutte le furie il suo ben poco malleabile committente. Soltanto dopo molte insistenze – e probabilmente anche minacce – da parte di Giulio II al Gonfaloniere di Giustizia Pier Soderini, Michelangelo accettò di prendere in considerazione l’idea di una riconciliazione con Papa Della Rovere.

Quando l’artista giunse finalmente nell’Urbe, Giulio II lo informò della sua volontà di affidargli una nuova, titanica, impresa vale a dire la ri-dipintura della Cappella Sistina, voluta, come dice il nome, dallo zio dello stesso Giulio II, Sisto IV. Inizialmente Michelangelo pose delle obiezioni al progetto asserendo di non essere avvezzo alla tecnica dell’affresco ma da uomo ambizioso finì con l’accettare deciso a misurarsi con i maestri fiorentini come il Ghirlandaio. L’incarico venne formalizzato a Roma tra il marzo e l’aprile 1508 e Michelangelo ricevette un primo acconto di cinquecento ducati. I primi mesi vennero occupati dai disegni preparatori (schizzi e cartoni), la costruzione del ponte e la preparazione delle superfici da affrescare.

Il 10 giugno 1508 i lavori dovevano già procedere, poiché il cerimoniere pontificio Paris de Grassis registrò come le cerimonie liturgiche nella cappella erano state disturbate dalla caduta di polvere causata da costruzioni nella parte alta della cappella. Per poter raggiungere il soffitto e poter quindi lavorare senza nel contempo interrompere le celebrazioni liturgiche nella Cappella Michelangelo realizzò una speciale impalcatura, adattamento di un sistema già in uso per la gittata delle volte. L’artista risolse così il problema dell’altezza e della mobilità, ma non quello della comodità: lo testimoniò lui stesso raffigurandosi nell’atto di dipingere la volta, accanto ad un componimento in versi che, “tradotto” in italiano moderno, recita: “Sono teso come un arco. Mi è già venuto il gozzo, il ventre me lo sento in gola, i lombi mi sono entrati nella pancia, non vedo dove metto i piedi e il pennello mi gocciola sul viso”. Il lavoro, di per sé massacrante, era aggravato dall’insoddisfazione di sé tipica dell’artista, dai ritardi nel pagamento dei compensi e dalle continue richieste di aiuto da parte dei familiari.

Nell’ultimo anno Giulio II divenne sempre più impaziente, obbligando il Buonarroti a un ritmo frenetico per avvicinare la conclusione. Gli ultimi affreschi mostrano uno stile più conciso e con alcuni dettagli semplificati, ma non per questo meno efficaci. Gli affreschi vennero solennemente scoperti e la cappella riaperta il giorno 31 di ottobre del 1512, vigilia della festa di Ognissanti. Giulio II morì pochi mesi più tardi, il 21 febbraio 1513. Michelangelo continuò a lavorare alla tomba ma dovette rivedere il progetto iniziale, giudicato troppo dispendiosi dagli eredi del defunto Papa. Di lì a poco comunque l’artista fu costretto ad abbandonare i lavori a causa di una nuova commissione affidatagli dal nuovo Pontefice Leone X, al secolo Giovanni de Medici, figlio cadetto del Magnifico. Questi affidò al suo vecchio amico Michelangelo il compito di completare la facciata della Basilica di San Lorenzo a Firenze, un progetto ambizioso che non fu mai realizzato per la difficoltà dell’impresa e i costi elevati. Papa Leone dirottò allora il talento di Michelangelo verso un nuovo, grandioso, progetto: la progettazione delle Cappelle Medicee, dove avrebbero trovato sepoltura Giuliano Duca di Nemours e Lorenzo Duca d’Urbino, rispettivamente fratello e nipote di Leone X, scomparsi prematuramente il primo nel 1516 e il secondo nel 1519. La morte di Leone – scomparso a soli quarantasei anni il 1º dicembre 1521 – sospese il progetto solo per breve tempo, poiché già nel 1523 venne eletto suo cugino Giulio, che prese il nome di Clemente VII e confermò a Michelangelo tutti gli incarichi.

Le vicende occorse negli anni successivi parvero tuttavia confermare l’ambiguo rapporto con i propri committenti. Nel maggio 1526 Clemente VII diede vita alla Lega di Cognac assieme a Francesco I di Francia, a Venezia e al Duca di Milano Francesco II Sforza allo scopo di contrastare lo strapotere dell’Imperatore Carlo V. Questi rispose inviando in Italia un esercito di lanzichenecchi che nel maggio 1527 si impadronì di Roma saccheggiandola senza pietà. Mentre Papa Clemente trovava scampo in Castel Sant’Angelo, a Firenze la popolazione si ribellò al dominio dei Medici, restaurando ancora una volta la Repubblica. Michelangelo aderì pienamente al nuovo regime, con un appoggio ben oltre il piano simbolico. Il 22 agosto 1528 si mise al servizio del governo repubblicano, venendo nominato “Governatore generale sopra le fortificazioni”, in previsione dell’assedio che le forze imperiali si apprestavano a cingere come parte dell’accordo tra Carlo V e Clemente VII per restaurare la signoria medicea.
All’indomani della resa di Firenze (12 agosto 1530) Michelangelo, che sapeva di essersi fortemente compromesso e temendo quindi una vendetta, fuggì rocambolescamente a Venezia ma ottenne rapidamente il perdono papale a patto che il maestro tornasse a lavorare alle tombe medicee in San Lorenzo. Tuttavia l’insofferenza per il dominio tirannico del Duca Alessandro de Medici il Moro spinse Michelangelo a trasferirsi definitivamente a Roma nel 1534. Nella Città Eterna ritrovò Tommaso de’ Cavalieri, un giovane aristocratico conosciuto due anni prima. Michelangelo si legò appassionatamente a questo ragazzo, cui dedicò disegni oltre a numerosi sonetti e lettere dal tono affettuoso.

I versi descrivono un amore idealizzato e platonico, con espressioni di grande devozione e ammirazione. Michelangelo lo definiva un esempio di bellezza e virtù, scrivendo poesie che esprimono un’intensa attrazione spirituale e intellettuale. Clemente VII inoltre aveva in serbo una nuova sfida per Michelangelo: nel 1533 durante un loro incontro a San Miniato il Papa gli manifestò il desiderio di fargli affrescare la parete dietro l’altare della Sistina con un monumentale Giudizio universale, un tema che avrebbe degnamente concluso le storie bibliche, evangeliche e degli apostoli della Cappella già realizzate dallo stesso Buonarroti.
Di lì a poco, il 25 settembre 1534, Papa Clemente morì ma il suo successore, Paolo III Farnese gli confermò prontamente tutti gli incarichi. Michelangelo lavorò al “Giudizio Universale” dal 1536 al 1541, creando una visione potente e drammatica del destino umano. Cristo, al centro dell’opera, appare come un giudice severo, circondato da una miriade di figure in movimento, alcune destinate alla salvezza, altre precipitate nell’Inferno. La drammaticità dell’opera suscitò reazioni contrastanti: molti ammirarono la straordinaria potenza espressiva delle figure, mentre alcuni criticarono la presenza dei corpi nudi, considerati eccessivamente audaci per un luogo sacro.

Un aneddoto celebre riguarda il Maestro di Cerimonie del Papa, Biagio da Cesena, che criticò aspramente la nudità nell’affresco, definendola indegna della Cappella Sistina. Per vendetta, Michelangelo lo ritrasse nell’Inferno con le sembianze di Minosse, con orecchie d’asino e avvolto da un serpente che gli morde le parti intime. Quando Biagio si lamentò con il Papa, quest’ultimo scherzò dicendo che non poteva fare nulla, poiché il suo potere non si estendeva all’Inferno.
Gli anni Quaranta furono particolarmente intensi dal punto di vista della produzione artistica nonostante Michelangelo viaggiasse ormai verso la settantina e iniziasse ad avvertire gli acciacchi dell’età. Nel 1542 Paolo III lo incaricò di affrescare la propria cappella privata in Vaticano. Contemporaneamente il maestro si impegnò nella ristrutturazione di Piazza del Campidoglio, che assunse l’aspetto che ammiriamo tuttora con il trasferimento al centro della stessa della statua equestre di Marco Aurelio e la realizzazione della Cordonata capitolina. Ma soprattutto, tra il 1544 e il 1545 si chiuse una volta per tutte la vicenda della tomba di Giulio II, protrattasi per quattro decenni. In base al contratto del 1542 fu stabilito che il monumento fosse collocato nella chiesa romana di San Pietro in Vincoli.

Dall’originario progetto, che prevedeva oltre quaranta statue, si giunse ad uno decisamente più modesto con appena sette – di cui solo tre di Michelangelo e delle quali soltanto una, il Mosè, degna della sua fama – poste su due livelli. Al primo furono collocati il Mosè e le rappresentazioni della Vita attiva e della Vita contemplativa, mentre al secondo trovarono posto una statua di Giulio II disteso con sopra la Vergine col Bambino affiancati dal Profeta e dalla Sibilla.
Negli ultimi anni della sua vita Michelangelo si dedicò soprattutto all’architettura, lavorando ai cantieri della Basilica di San Pietro e di Palazzo Farnese. Abbandonò invece progressivamente la pratica della pittura e anche della scultura, esercitate ormai solo in occasione di opere di carattere privato, come la Crocifissione realizzata nel 1541 per l’amica Vittoria Colonna, aristocratica romana che introdusse Michelangelo nel circolo viterbese degli Spirituali guidato dal Cardinale inglese Reginald Pole. In un periodo segnato dalla rottura dell’unità religiosa dell’Occidente in seguito al dilagare della Riforma Protestante e alla reazione della Chiesa cattolica che sfocerà nel Concilio di Trento e nei rigori della Controriforma, i membri del circolo anelavano ad un rinnovamento spirituale ed ad una riconciliazione fra la stessa Chiesa e i gruppi riformati. Pur essendo profondamente credente, Michelangelo ebbe spesso contrasti con le autorità ecclesiastiche, specialmente per la sua visione artistica, che talvolta suscitava critiche e polemiche. Ne è un esempio la decisione di censurare le parti “oscene” del Giudizio universale ordinando al suo discepolo Daniele da Volterra di realizzare una serie di drappeggi che gli valsero il soprannome di “Braghettone”.

Anche la vita privata di Michelangelo rivelava un ché di ascetico quasi monacale. Non solo non si sposò mai e non ebbe figli – e questo fu probabilmente dovuto anche al suo carattere bisbetico e decisamente misogino – ma continuò a condurre una vita grama anche dopo che aveva accumulato somme tali da consentirgli di vivere nel lusso per il resto dei suoi giorni. Michelangelo era noto per il suo stile di vita frugale: indossava abiti logori, si nutriva con cibo modesto e dormiva spesso vestito e con gli stivali, come solitamente facevano i poveri. Eppure secondo alcune testimonianze dopo la sua morte fu rinvenuta nella sua casa una notevole quantità di oro nascosta. Perché tanta parsimonia? Probabilmente ciò si spiega con la volontà di risollevare il nome e le sorti del proprio casato che all’epoca della sua giovinezza era decisamente decaduto. Michelangelo infatti non si limitò a risparmiare i soldi guadagnati ma li impiegò nell’acquisto di diverse proprietà immobiliari, tra cui Palazzo Buonarroti a Firenze, oggi sede di un museo a lui dedicato. Complessi furono invece i rapporti con il padre Ludovico e i quattro fratelli: se infatti Michelangelo cercò sempre di garantire loro un buon tenore di vita, in varie occasioni li accusò di vivere delle sue fatiche, se non di approfittarsi spudoratamente della sua generosità. Forte era invece il legame con il nipote Leonardo, figlio dell’amato fratello Buonarroto. Non avendone di propri, Michelangelo lo considerava una sorta di figlio e vedeva in lui il continuatore della casata al punto da nominarlo nel suo testamento come erede principale delle proprie sostanze.
Fu proprio Leonardo a riportare la salma dello zio a Firenze quando questi si spense a Roma il 18 febbraio del 1564. Michelangelo stava per compiere ottantanove anni quando la morte lo colse nella sua modesta casupola di piazza Macel de’ Corvi, assistito dal fidato Tommaso de Cavalieri. Scrisse Giorgio Vasari che i romani intendevano inumare l’artista nella basilica di San Pietro, al che Leonardo avrebbe trafugato il corpo di notte e in gran segreto per riportarlo a Firenze dove ricevette l’omaggio del Duca Cosimo I de Medici e solenni esequie di stato. Michelangelo fu infine inumato in Santa Croce, in un sepolcro monumentale disegnato dal Vasari.
Per saperne di più:
- Giorgio Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori
- Ascanio Condivi, Vita di Michelangelo Buonarroti
- Antonio Forcellino, Michelangelo. Una vita inquieta