Immaginate un esercito di diecimila soldati in cammino attraverso le montagne dell’Armenia, impegnati in una marcia disperata per la salvezza. Intorno a loro neve e ghiaccio a perdita d’occhio. A rendere ancora più penose le condizioni della colonna contribuirono il gelo e le tempeste di neve oltre al riverbero accecante del sole sulle superfici innevate, che costò a molti la perdita delle vista, oltre i feroci assalti degli indigeni di quelle lande inospitali.

Chi erano questi soldati e com’erano finiti in quella situazione? Per rispondere a questa domanda occorre recuperare uno dei capolavori della letteratura antica, l’Anabasi, redatta dallo storico Senofonte, che prese parte in prima persona a quell’epopea. Dalle pagine dell’autore ateniese apprendiamo quindi che si trattava di un esercito di mercenari greci reduci da una spedizione nel cuore dell’impero persiano, iniziata tra grandi speranze e conclusasi nel peggiore dei modi.
Per risalire alle origini dell’avventura di quelli che grazie alla penna di Senofonte diventeranno i famosi “Diecimila” dobbiamo spingerci a migliaia di chilometri dall’Ellade, negli intrighi della corte imperiale persiana. Nel 404 a.C., mentre la trentennale guerra del Peloponneso stava volgendo al termine con la resa di Atene e il trionfo di Sparta, il Gran Re di Persia Dario II morì dopo diciannove anni di regno. L’Imperatore lasciava due figli maschi: il maggiore Artaserse, destinato a succedergli sul trono, e il minore, Ciro, prediletto di sua madre Parisatide. Costei, non essendo riuscita a impedire l’ascesa al trono di Artaserse e temendo che questi intendesse sbarazzarsi del fratello, intercedette presso di lui, ottenendo per Ciro la nomina a satrapo (governatore) della Lidia, nell’attuale Turchia occidentale, a migliaia di chilometri dalla capitale Persepoli.

Ciro dal canto suo non lasciò cadere le sue pretese al trono paterno e iniziò presto a tramare per rovesciare l’odiato fratello maggiore. Il principe achemenide non era certamente sprovvisto di mezzi pertanto cominciò a mettere insieme un’armata alla testa della quale avrebbe potuto arrivare al potere supremo. Per reclutare i mercenari di cui aveva bisogno Ciro si rivolse ad un greco esiliato dalla propria patria e rifugiatosi presso di lui, lo spartano Clearco. Costui, descritto in seguito da Senofonte come un soldato valoroso e audacissimo, “con la guerra nel sangue”, era un veterano della guerra del Peloponneso, durante la quale aveva operato nell’area dell’Ellesponto (attuale Stretto dei Dardanelli). Terminato il conflitto era stato poi inviato nella Tracia salvo poi essere richiamato precipitosamente in patria dagli Efori, i supremi magistrati di Sparta. Clearco non solo disobbedì all’ordine ma, messosi alla testa di un’armata di mercenari, marciò su Bisanzio impadronendosene. A quel punto però, come racconta Diodoro Siculo, ormai condannato a morte in contumacia, Clearco fu costretto alla fuga presso i persiani dopo avere appreso dell’invio di un contingente spartano inviato per arrestarlo.

Per accontentare il proprio patrono, Clearco si mise in contatto con le sue vecchie conoscenze allo scopo di mettere in piedi un esercito. L’occasione del resto non poteva essere più favorevole. Al termine della trentennale guerra del Peloponneso la Grecia pullulava di uomini esperti nell’uso delle armi e ormai così avvezzi alla vita militare e più in generale alla violenza da rendere problematico un loro ritorno alla vita civile. Attirati dalle promesse di gloria ma soprattutto dall’oro persiano e dal miraggio di consistenti bottini, migliaia di uomini risposero entusiasticamente all’appello. Del resto, che dei greci accettassero di buon grado di combattere al soldo dei persiani non ci deve stupire troppo: nonostante i conflitti combattuti alcuni decenni prima tra le poleis greche e l’impero achemenide, a noi noti fin dai tempi della scuola col nome di “guerre persiane”, erano secoli ormai che i satrapi persiani reclutavano mercenari ellenici perché militassero nelle loro armate.

I mercenari greci iniziarono a concentrarsi nelle vicinanze della città anatolica di Sardi a partire dalla primavera del 401 a.C. Tra questi soldati si trovava anche l’ateniese Senofonte,arruolatosi su invito di un suo vecchio amico, Prosseno di Beozia, giunto in Asia alla testa di alcune centinaia di soldati. Lo scrittore era stato esiliato dalla propria città natale dal governo democratico restaurato nel 403 a.C. dal colpo di stato del generale Trasibulo a causa del ruolo ricoperto nel corso del precedente regime oligarchico dei cosiddetti “Trenta tiranni” instauratosi dopo la sconfitta ateniese nella Guerra del Peloponneso.
È proprio grazie al resoconto stilato da Senofonte che conosciamo in modo abbastanza dettagliato la consistenza numerica e la composizione delle forze elleniche al servizio di Ciro il Giovane. L’armata greca, sommando tutti i reggimenti giunti da ogni parte dell’Ellade contava infatti complessivamente circa 10.600 opliti, ovvero i soldati della fanteria pesante di linea dotata di corazza, elmo e schinieri metallici, le cui armi principali erano la spada e la lancia. Completava la panoplia il grande scudo rotondo, l’hoplon, dal quale derivava appunto il termine “oplita”. In appoggio alla fanteria oplitica, nerbo di ogni armata greca, erano stati reclutati 1.600 peltasti, ossia combattenti armati alla leggera, armati con giavellotto e scudo di vimini e cuoio dalla forma vagamente a mezzaluna, assieme ad altri 500 fanti leggeri “generici” e 200 arcieri ( in greco “toxòtai“) cretesi. Dalla somma di queste forze risulta che la consistenza dell’esercito dovesse essere intorno alle 12.900 unità. Tuttavia il loro numero era destinato a mutare per effetto di integrazioni e perdite dovute a caduti e diserzioni. Lo stesso Senofonte è poco chiaro e nel corso del racconto fornisce cifre discordanti. Per questo motivo gli storici successivi battezzarono i componenti della spedizione come i “Diecimila”.

Senofonte riferisce inoltre come al seguito di Ciro vi fosse anche un esercito di guerrieri asiatici guidato dal generale persiano Arieo, il quale avrebbe avuto al suo comando 100 mila uomini oltre a una ventina di carri falcati, armati cioè di micidiali lame che sporgevano dai mozzi delle ruote. Tuttavia è molto probabile che lo scrittore ateniese abbia esagerato nel riportare il numero dei combattenti asiatici, che gli studiosi odierni stimano in circa 20 mila combattenti. Tra i motivi di questa approssimazione, peraltro imputabile anche ad altri autori greci antichi, vi era da un lato certamente la mancanza di registri scritti che consentissero di quantificare con precisione le forze persiane e dall’altro, probabilmente, la malcelata xenofobia che in generale i greci nutrivano nei confronti degli asiatici considerati come “barbari” e inferiori militarmente in quanto incapaci di resistere all’urto delle compatte falangi elleniche come dimostrato dagli scontri di Maratona, delle Termopili o di Platea.
Da Sardi la colonna di Ciro iniziò la sua marcia verso oriente, diretta verso il cuore dell’Impero persiano. Inizialmente il principe si guardò bene dal rendere note le sue vere intenzioni ai componenti della spedizione, informando unicamente alcuni dei suoi più stretti collaboratori. Alla truppa, di volta in volta, venne invece spiegato che l’obbiettivo della campagna era la città di Mileto, poi la sottomissione della Pisidia. A mettere a tacere i mugugni dei soldati contribuirono anche l’oro e le promesse elargite da Ciro. L’armata proseguì quindi pressoché indisturbata attraverso tutta l’Anatolia sino in Cilicia (attuale Turchia sud-occidentale) e da lì, attraverso lo stretto passaggio conosciuto con il nome di “Porte Siriache” valicò la catena del Tauro sbucando nella pianura affacciata sul mar Mediterraneo. A quel punto della spedizione si unirono ulteriori rinforzi costituiti da un raggruppamento di 400 disertori greci delle truppe comandate dal satrapo Abrocoma, rimasto fedele ad Artaserse oltre a 700 opliti spartani comandati dall’ufficiale lacedemone Chirisofo. La presenza nei ranghi dell’armata di un graduato dell’esercito spartano depone a favore dell’ipotesi che Sparta intendesse in qualche modo “sdebitarsi” con il satrapo della Lidia per i consistenti aiuti in denaro e navi forniti nell’ultima fase della guerra contro Atene.

Quando infine l’armata arrivò in Siria, Ciro non poté più tacere ai suoi uomini il vero obbiettivo della missione per la quale erano stati ingaggiati. Per calmare le proteste il principe acconsentì ad un aumento della paga ma questo non impedì il verificarsi di diserzioni fra i mercenari, come quelle dei comandanti Senia d’Arcadia e Pasione di Megara, i quali non se la sentirono di seguire Ciro fino in fondo a quell’avventura.
Intanto Artaserse venne informato dal satrapo di Caria Tissaferne a proposito delle reali intenzioni di Ciro ma ormai questi si preparava a penetrare in Mesopotamia guadando il fiume Eufrate all’altezza di Tapsaco, nell’odierna Siria orientale. Il Gran Re si trovò quindi nella necessità di radunare in fretta e furia un esercito per sbarrare al fratello ribelle la strada verso Babilonia. Data l’urgenza le forze messe insieme dal sovrano persiano non dovevano essere tanto più numerose rispetto a quelle ribelli per cui appare senza dubbio inverosimile la cifra di un milione e duecentomila soldati riportata da Senofonte nell’Anabasi. Più realisticamente le forze “lealiste” ammontavano a circa 40 mila unità. Tuttavia Artaserse poteva contare su due assi nella manica rappresentati dalla cavalleria, più numerosa e meglio armata di quella del fratello, e su un numero di carri falcati dieci volte più numerosi di quelli del nemico.

Gli eserciti dei due fratelli rivali, grosso modo di pari numero, si scontrarono il 3 settembre 401 a.C. nella piana di Cunassa, un villaggio, circa 90 km a nord di Babilonia. Quel mattino gli esploratori vennero a riferire a Ciro che l’esercito di Artaserse si trovava a pochi chilometri di distanza pronto a dare battaglia. Il pretendente allora, consapevole che il momento della resa dei conti era finalmente arrivato, diede alle sue truppe l’ordine di prepararsi alla battaglia. I soldati si apprestarono allora allo scontro in fretta e furia e a digiuno, essendo mancato il tempo per distribuire la colazione.
L’armata si dispose con Clearco al comando della fanteria greca schierato sull’ala destra, lungo il corso dell’Eufrate, affiancato dai reparti di Prosseno di Beozia e Menone di Farsalo mentre la fanteria asiatica di Arieo si piazzò sul fianco sinistro. Al centro dello schieramento si trovava Ciro con la sua guardia personale di 600 cavalieri catafratti. Mentre Artaserse si avvicinava al campo di battaglia Ciro e Clearco litigarono a proposito della tattica da seguire: il principe infatti avrebbe voluto che il suo comandante puntasse con i suoi uomini verso il centro dello schieramento nemico, dove c’era suo fratello, ma il generale spartano, non volendo scoprire il fianco destro della falange, spiegò che lo avrebbe fatto, però a modo suo.

Pronti a combattere, dopo avere offerto un sacrificio a Zeus Soter “Salvatore”, i greci mossero all’attacco intonando il canto di guerra, il peana. Pur faticando a mantenere la coesione della falange i mercenari riuscirono a eludere l’attacco dei carri falcati per poi volgere in fuga la fanteria persiana lealista. A quel punto, eccitati dallo scontro che pareva volgere a loro favore, i greci si volsero all’inseguimento dei nemici, perdendo contatto con il loro schieramento. Questo consentì al satrapo Tissaferne di lanciare la sua cavalleria nel varco apertosi tra la falange e il resto dell’esercito di Ciro, il quale, trovandosi esposto al rischio di venire accerchiato, decise di giocarsi il tutto per tutto caricando frontalmente la guardia personale di Artaserse, volgendola in fuga. Nell’azione però il suo reggimento si sfaldò nell’inseguimento dei fuggiaschi e il principe si trovò praticamente isolato. Riuscì a ferire Artaserse ad un fianco con la lancia, disarcionandolo, ma nella concitazione del combattimento fu colpito in volto da un giavellotto, rimanendo ucciso. Il suo cadavere venne decapitato e impalato per ordine di Artaserse.
Le forze di Ciro sbandarono e gli uomini di Artaserse ne approfittarono per saccheggiarne l’accampamento. Artaserse si ricongiunse a Tissaferne e insieme attaccarono i greci, che però riuscirono a mettere in fuga i persiani. Al tramonto i mercenari ellenici, ritenendosi vittoriosi, non riuscivano a capire che fine avessero fatto Ciro e il suo esercito. Tornati al proprio campo lo trovarono devastato mentre il giorno successivo appresero della sorte di Ciro da emissari di Arieo.

Con la morte del loro “datore di lavoro”i greci si trovarono abbandonati completamente al loro destino, senza guida e nel cuore di un territorio a loro ostile. D’altro canto essi risultavano imbattuti sul campo e potevano ancora disporre delle loro armi, motivo per cui rifiutarono sdegnosamente l’intimazione alla resa incondizionata da parte del Gran Re. Accettarono invece l’offerta di Tissaferne che propose di scortarli fuori dalla regione di Babilonia. Al termine di due giorni di marcia carica di tensione, all’altezza del fiume Zab, un affluente del Tigri, i comandanti ellenici chiesero e ottennero un incontro con Tissaferne per trovare un accordo definitivo. Tuttavia il satrapo ordinò immediatamente l’arresto di Clearco e degli altri comandanti greci, Prosseno di Beozia, Socrate di Acaia e Menone di Farsalo oltre che di una ventina di comandanti di compagnia, che furono tutti decapitati. Non è chiaro se Tissaferne prese questa decisione di sua iniziativa o su ordine del Gran Re ma una cosa è certa: per nessuna ragione ci si poteva permettere che quei mercenari tornassero da dov’erano venuti perché se avessero fatto trapelare la notizia che un esercito ostile era riuscito a penetrare indisturbato così profondamente all’interno del territorio persiano, essi avrebbero dato una dimostrazione inequivocabile della debolezza dell’Impero.

Rimasti privi dei loro ufficiali, i greci ne elessero di nuovi e, spronati dall’ateniese Senofonte iniziarono i preparativi per il viaggio di ritorno in patria bruciando i carri e tutto l’equipaggiamento superfluo per rendere la marcia più spedita. Impossibilitati a tornare in Grecia percorrendo il medesimo tragitto dell’andata, i Diecimila risalirono il corso del Tigri riuscendo ad eludere l’inseguimento di Tissaferne penetrando nell’aspra e montuosa regione della Gordiene, situata lungo l’alto corso del fiume Tigri, tra gli attuali Iraq settentrionale e Turchia sudorientale. Questa terra era abitata dai Carduchi, popolo di montanari da sempre ostili alla dominazione persiana, il che tuttavia non impedì loro di molestare per giorni con azioni di guerriglia la colonna dei greci. Dopo sette giorni infernali, i greci uscirono dal territorio dei Carduchi e, puntando verso l’Armenia giunsero all’Eufrate ma, non riuscendo ad attraversarlo, ne risalirono il corso finendo in mezzo ai monti dell’Armenia in pieno inverno.

Molti dei mercenari perirono a causa del freddo mentre tanti altri rimasero accecati dal riverbero dei raggi solari sulle superfici innevate. Per sfamarsi si ridussero a razziare i villaggi che incontrarono lungo la marcia motivo per cui le guide locali da loro impiegate li ingannarono spingendoli ancora di più verso oriente, nella valle del fiume Aras, ai confini dell’odierno Azerbaigian. Nel corso della loro avanzata dovettero vedersela con altre bellicose popolazioni montanare come i Taochi e i Calibi, che inflissero loro perdite sanguinose. Giunti presso la città di Gimnià, il capo locale assegnò ai greci delle guide che li conducessero fuori dai territori ostili. Finalmente, quando l’avanguardia giunse al monte Teche si udirono urla che attirarono l’attenzione di Senofonte, che accorse allarmato:
«Scese da cavallo, prese con sé Licio e i cavalieri e corse a prestar soccorso, ma ben presto sentirono i soldati gridare: “Mare, mare”. La voce rimbalzava di bocca in bocca. Allora anche tutta la retroguardia si mise a correre, mentre pure le bestie da soma e i cavalli vennero spinti al galoppo. Quando furono tutti sulla cima, cominciarono ad abbracciarsi, strateghi e locaghi, tra le lacrime. All’improvviso, chissà per esortazione di chi, i soldati portarono delle pietre e formarono un tumulo enorme.»
Giunti a Trapezunte (l’attuale Trebisonda, sul Mar Nero) i circa 6.600 superstiti della marcia celebrarono sacrifici agli dei come segno di ringraziamento e si trattennero un mese per recuperare le forze. A quel punto però, dopo avere superato mille difficoltà, la coesione tra i Diecimila venne meno e l’esercito si sfaldò, dilaniato dalle rivalità tra i comandanti. Buona parte dei mercenari, in cerca d’ingaggio, finì con l’arruolarsi sotto le bandiere del principe tracio Seute II e poi ancora agli ordini del generale spartano Tibron, che stava radunando un’armata contro il satrapo Tissafarne.

Dal canto suo Senofonte, che inizialmente aveva accarezzato l’idea di fermarsi in Asia magari fondandovi una colonia, si rassegnò a fare ritorno in Grecia. Impossibilitato a rientrare ad Atene, si aggregò alla spedizione in Asia guidata dal Re spartano Agesilao II (396-394 a.C.) del quale divenne amico ed estimatore. Successivamente seguì il monarca lacedemone nel suo viaggio di ritorno in Grecia dove nel frattempo era scoppiata la guerra di Corinto (395-387 a.C.) che vide Sparta contrapporsi ad un’alleanza tra Atene, Tebe, Argo e Corinto appoggiate dalla Persia. Nel 390 a.C. fu ricompensato dai lacedemoni con la concessione di una proprietà a Scillunte, nel Peloponneso, dove visse in tutto e per tutto come uno spartiata (i suoi figli furono educati secondo l’Agoghè, l’educazione spartana) dedicandosi alla stesura della sua Anabasi. Nel 370 a.C. Senofonte e la famiglia dovettero riparare a Corinto in seguito alla battaglia di Leuttra, che sanzionò il tramonto dell’egemonia di Sparta e l’inizio dell’ascesa di Tebe. Nel 362 a.C. suo figlio maggiore, Grillo, militare dell’esercito lacedemone, cadde combattendo contro i tebani a Mantinea. Senofonte, ormai settantenne, morì esule a Corinto nel 355 a.C.