LA SECONDA FASE DELLA GUERRA ANNIBALICA: DALLA DISFATTA DI CANNE (216 a.C.) ALLA VITTORIA DI ZAMA (202 a.C.)
All’indomani del disastro di Canne, Annibale appariva agli occhi dei contemporanei come l’ormai prossimo vincitore della guerra contro Roma: in due anni, dal 218 al 216 a.C., il Barcide, sino a quel momento invitto, aveva percorso la Penisola italiana da nord a sud, devastando il territorio nemico e mettendo fuori combattimento circa 100 mila soldati della Res Publica.

Numerosi storici antichi e moderni si sono domandati perché, a questo punto del conflitto, Annibale non abbia assestato la zampata finale marciando sull’Urbe e assediandola. A questo proposito esiste un aneddoto, riportato da Polibio e da Tito Livio, che racconta come Maarbale, il comandante della cavalleria numida, avesse esortato Annibale a mandarlo avanti con i suoi squadroni montati. La loro velocità, gli assicurò, avrebbe consentito infatti di sopravanzare i messaggeri inviati nell’Urbe dal console superstite di Canne, Terenzio Varrone, e di catturare la città.
Annibale tuttavia rifiutò la proposta al ché Maarbale replicò in maniera sprezzante “Vincere scis, Hannibal, victoria uti nescis” ossia “Tu sai vincere, Annibale, ma non sai sfruttare la vittoria”. Il fatto che da quel momento in avanti la figura di Maarbale scompaia dalle vicende della guerra, in cui fino a quel momento aveva avuto un ruolo di primo piano, lascia pensare che Annibale non abbia gradito troppo la risposta tagliente del proprio ufficiale, che finì con l’essere sostituito da Annone di Bomilcare, nipote dello stesso Annibale. Anche se in quell’occasione il condottiero barcide si dimostrò permaloso, di certo non era uno stupido. Annibale infatti era perfettamente conscio del fatto che le cavallerie berbere per quanto si fossero dimostrate letali in campo aperto, erano destinate inevitabilmente a farsi annientare tra gli stretti vicoli della Suburra.

Escludendo un’azione a sorpresa, anche un assalto a Roma era tuttavia da ritenersi parimenti irrealizzabile e il perché è presto detto: Anche procedendo a marce forzate, Annibale e il grosso della sua armata avrebbero impiegato almeno due settimane per coprire i 400 km che separano il campo di battaglia di Canne da Roma e una volta giunti sotto le mura dell’Urbe non l’avrebbero trovata certo sguarnita ma anzi è assai probabile che il presidio posto a difesa della città sarebbe stato rafforzato da migliaia di cittadini armati per l’occasione. Del tutto fuori questione era poi l’ipotesi di un assedio, privo com’era Annibale sia di macchine d’assedio sia, soprattutto, di una flotta che tagliasse la via del Tevere.
Per questi motivi Annibale si guardò bene dal marciare sulla capitale nemica anche perché, come abbiamo detto, il suo obbiettivo fin dal suo arrivo in Italia era un altro, ossia provocare lo sfaldamento della federazione romana inducendo i socii italici alla ribellione. E ora, all’indomani del massacro di Canne, il disegno di Annibale pareva finalmente sul punto di diventare realtà: quasi subito si ribellò Capua, la città sorella, mossa con ogni probabilmente dall’ambizione luciferina di sostituirsi a Roma nel ruolo di egemone della confederazione. Presto il suo esempio fu imitato da quasi tutte le popolazioni appenniniche e dalla maggioranza delle poleis italiote e siceliote. In altre parole l’intero meridione d’Italia si sollevò contro Roma passando nel campo di Annibale, il quale nel 215 a.C. strinse un patto di alleanza militare con il sovrano di Macedonia Filippo V. pareva insomma che il Barcide fosse ormai ad un passo dal vincere la guerra che aveva lungamente voluto e preparato.

Nonostante la situazione disperata Roma rifiutò ogni ipotesi di trattativa con il condottiero cartaginese a cui non perdonava il sistematico ricorso allo stratagemma e alla frode nella conduzione della guerra né l’essersi posto a capo di un’armata di barbari conducendola di vittoria in vittoria. Potendo ancora contare sull’assoluta fedeltà di Etruschi, Latini e Campani, le cui elites si identificavano ormai da secoli con Roma e con il suo senato, la Res Publica si preparò anzi a resistere ad oltranza. Più che nella potenza delle due legioni, quindi, il vero segreto della forza di Roma risiedette nell’esistenza stessa del suo senato. I trecento patres conscripti che lo componevano erano la testimonianza vivente del legame che univa Roma a decine di comunità diverse , un vincolo che Annibale non sarebbe mai riuscito a spezzare.

Dal canto suo, anche se aveva guadagnato numerose adesioni alla sua causa, il Barcide poteva fare poco affidamento sui suoi nuovi alleati. Quelli che gli si affiancarono erano infatti alleati infidi, poco fedeli a lui come già lo erano stati per Roma. Guidate dai propri egoistici interessi, le comunità italiche tendevano poi a condurre ciascuno la propria guerra separatamente senza che Annibale, nonostante i suoi sforzi, riuscisse a imporre loro una strategia comune. Un altro problema per il generale cartaginese era costituito dal fatto che egli non poté trarre dagli alleati che un contributo alquanto modesto in termini di soldati per non dare loro l’impressione di avere soltanto cambiato padrone.
Pur con questi limiti Annibale poté ugualmente disporre di forze notevoli che però non poteva comandarle tutte di persona. Il Cartaginese vide così ritorcersi contro quello stesso fattore che lo aveva protetto dal pericolo di essere schiacciato dalla superiorità numerica avversaria. Costretto a frazionare le proprie forze e soprattutto a delegarne il comando, il condottiero punico si espose fatalmente al rischio di subire sconfitte perché se da una parte i generali della Res Publica si dimostrarono tutti inferiori a lui, dall’altra essi erano perfettamente in grado di prevalere su qualsiasi altro comandante cartaginese e persino di tenere testa a Filippo di Macedonia.

Forse Annibale avrebbe potuto ancora vincere se il nemico gli avesse concesso la possibilità di combattere un’altra battaglia campale. Ma i comandanti romani avevano ormai fatto proprio l’insegnamento di Quinto Fabio Massimo, ed evitarono con cura ogni scontro diretto. Di pari passo, mobilitando ogni uomo libero disponibile e persino gli schiavi appositamente liberati (i volones), la Res Publica arrivò a mettere in campo fino a venticinque legioni.
Anche se Annibale riuscì ancora a cogliere qualche successo grazie soprattutto a imboscate e colpi di mano, Roma passò al contrattacco riconquistando lentamente ma inesorabilmente le posizioni perdute: nel 214 a.C. fu ripresa Casilino e nel 213 Arpi. Siracusa, che in seguito alla morte del vecchio Ierone aveva ripudiato l’alleanza con Roma, fu espugnata nel 212 a.C. al termine di un assedio biennale dall’esercito del proconsole Marco Claudio Marcello, la “Spada di Roma”. Proprio nel corso dell’assalto finale contro la polis siceliota perì il geniale scienziato Archimede, pare ucciso da un legionario che, non avendolo riconosciuto, non avrebbe rispettato l’ordine di Marcello di risparmiagli la vita. L’anno successivo la spettacolare puntata di Annibale contro Roma non valse a impedire la riconquista romana di Capua mentre nel 209 anche Taranto dovette arrendersi alle legioni.

Mentre Annibale veniva progressivamente isolato nell’estremo meridione della Penisola italiana, dall’altra parte dell’Adriatico il suo alleato macedone Filippo V era a sua volta costretto sulla difensiva dall’alleanza stretta contro di lui dal proconsole Marco Valerio Levino con la Lega etolica e il Regno di Pergamo. Pertanto nel 205 a.C. Filippo si risolse a deporre le armi siglando a Fenice, capitale dell’Epiro, una pace basata essenzialmente sul ristabilimento dello status quo. Seppur trascurabile sul piano delle modifiche territoriali, la pace di Fenice fu molto importante per Roma essenzialmente per due motivi: da un lato infatti le consentì di chiudere il fronte macedone e dall’altro proiettò per la prima volta la Res Publica all’interno del kosmos politico ellenico, in qualità di garante di quelle comunità che ne avevano invocato l’intervento nel corso degli anni precedenti.
La guerra lampo progettata da Annibale si era dunque trasformata in guerra di logoramento dalla quale, data la preponderanza delle risorse umane e materiali a disposizione di Roma, il Cartaginese era destinato inevitabilmente ad uscirne sconfitto. Intanto, così come in Italia, con l’ingresso in scena del secondo grande protagonista della seconda guerra punica, anche in Spagna il conflitto iniziò a volgere progressivamente a favore di Roma. Sul fronte iberico infatti, emersero le qualità di un giovane comandante, Publio Cornelio Scipione, il futuro vincitore di Annibale. Nato intorno al 236 a.C. da una delle famiglie patrizie più antiche e potenti di Roma, Scipione era l’omonimo figlio del console sconfitto da Annibale al Ticino. Proprio in quell’occasione, stando al racconto di Polibio, l’allora diciassettenne Publio intervenne al comando di una turma di cavalieri portando così in salvo il genitore ferito nello scontro con gli squadroni numidi.

Due anni dopo, nel 216 a.C., in qualità di tribuno militare Scipione era stato coinvolto nel disastro di Canne riuscendo tuttavia a mettersi in salvo. La sua carriera politica ebbe inizio nel 213, quando, a soli 23 anni e senza avere quindi l’età legale per ricoprire la carica, fu eletto edile a furor di popolo. Ma la vera svolta nella vita dell’allora venticinquenne Publio giunse agli inizi del 211 a.C., quando arrivò a Roma la tragica notizia della morte di entrambi gli Scipioni, Publio e Gneo, caduti in combattimento ad un mese l’uno dall’altro nella guerra contro i Barcidi. Per la Res Publica si trattò di un colpo veramente duro da incassare in quanto occorreva trovare al più presto un comandante dotato del prestigio e delle capacità dei proconsoli appena scomparsi. Racconta Tito Livio che mentre i più autorevoli cittadini esitavano a farsi avanti, Publio Scipione reclamò per sè il comando del fronte spagnolo, ricevendo in risposta grandi acclamazioni e venendo eletto seduta stante all’unanimità. Scipione aveva ora la possibilità di vendicare il padre e lo zio, dando inoltre prova delle se doti militari, che si riveleranno pari a quelle del suo grande modello Annibale.

Publio giunse in Spagna investito dai comizi di un imperium proconsolare straordinario vista la giovane età e assunse il comando di un esercito che tra i rinforzi giunti con lui dall’Italia e le truppe già presenti in loco ammontava a circa 28 mila fanti e 3 mila cavalieri. Per prima cosa il nuovo comandante si impegnò a risollevare il morale delle truppe e a ricucire i rapporti con le tribù iberiche alleate di Roma. A quel punto, con l’arrivo della primavera del 210 a.C. Scipione marciò risolutamente a sud dell’Ebro puntando al cuore del territorio nemico, vale a dire Cartagine di Spagna, consapevole del fatto che i tre eserciti cartaginesi presenti nella penisola iberica si trovavano in quel momento ben lontani dalle coste orientali essendo accampati l’uno presso Gibilterra, l’altro nei dintorni di Madrid e il terzo alle foci del Tago. Le armate puniche erano comandate rispettivamente dai fratelli minori di Annibale, Magone e Asdrubale, e dal generale punico Asdrubale di Giscone.

Cartagine di Spagna (l’odierna Cartagena, in fenicio Qart Hadasht, in latino Nova Carthago) sorgeva su un istmo roccioso circondato su due lati dal mare e sul terzo da una laguna ed era collegata alla terraferma da una sottile lingua di terra lunga 400 metri. Protetta da solide mura difensive la città pareva dunque inespugnabile. Scipione era intenzionato a catturare la città prima che gli eserciti cartaginesi potessero giungere a soccorrerla. Giunto in vista della città, mentre il suo luogotenente Caio Lelio ne bloccava il porto con la flotta, Scipione si accampò con l’esercito all’imboccatura dell’istmo. Mentre il grosso delle forze romane teneva impegnati i difensori, sfruttando la bassa marea della laguna da lui presentata ai soldati come l’intervento di Nettuno in loro favore, Publio Scipione mandò all’assalto un vero e proprio commando di 500 legionari che, muniti di scale, riuscirono così ad arrivare in cima alle fortificazioni nemiche. Cartagine di Spagna cadde così al primo assalto. Finirono nelle mani dell’esercito romano il tesoro dei Barcidi, e un intero arsenale di armi e macchine d’assedio. Ancora più importante, in città si trovavano gli ostaggi che assicuravano a Cartagine la fedeltà dei capi iberici e che Scipione lasciò liberi di tornare alle proprie case.

Polibio ci racconta un aneddoto secondo cui, al termine dell’assedio di Nuova Cartagine i soldati di Scipione, conoscendo la debolezza del proprio comandante per le donne, condussero al suo cospetto una bellissima fanciulla fatta prigioniera nel corso del saccheggio. Publio tuttavia, pur ringraziandoli, rispose loro che egli non poteva accettare un simile dono e ordinò che la giovane fosse riconsegnata a suo padre. Venuto poi a sapere che la ragazza era stata promessa ad un principe dei Celtiberi, di nome Allucio, lo mandò a chiamare facendogli dono della fanciulla e consegnandogli come suo dono nuziale i ricchi donativi che i genitori della ragazza gli avevano fatto in segno di gratitudine. Questi gesti di generosità valsero al proconsole l’ammirazione e il rispetto delle genti iberiche. Addirittura i principi spagnoli, secondo i loro costumi, giunsero ad attribuire a Scipione l’appellativo di Rex, una circostanza che mise il comandante in imbarazzo vista la marcata avversione per l’istituzione monarchica professata dai romani.

Intanto, rendendosi conto che più tempo trascorreva più l’equilibrio di forze si spostava a favore dei romani, Asdrubale decise di muovere contro l’esercito di Scipione ma il proconsole, sentendosi ormai in grado di affrontarlo, lo anticipò marciando a sua volta contro l’armata cartaginese. Lo scontro tra i due schieramenti ebbe luogo nelle valle del Guadalquivir, nei pressi della cittadina di Baecula (corrispondente con ogni probabilità all’attuale località di Santo Tomé, in Andalusia). Mettendo in atto per la prima volta la manovra avvolgente di stampo annibalico, le legioni volsero in rotta le truppe di Asdrubale. Scipione, come già aveva fatto dopo la presa di Cartagine di Spagna, si dimostrò generoso nei confronti dei prigionieri, in particolare verso il principe berbero Massiva, nipote del sovrano di Numidia Massinissa. Questo gesto di clemenza getterà i semi di un’amicizia che alcuni anni dopo si sarebbe rivelata preziosa per il proconsole.
Asdrubale, pur sconfitto, rimase tuttavia a capo di un esercito quasi intatto con il quale prese la via dell’Italia deciso a unire le proprie forze a quelle di Annibale. Privo tuttavia della tempra e dell’astuzia del fratello maggiore, Asdrubale venne dapprima bloccato dallo sbarramento delle legioni e poi sospinto lungo il versante orientale della Penisola italiana. Qui, nella valle del Metauro, il suo esercito fu infine distrutto dalle legioni dei consoli Marco Livio Salinatore e Caio Claudio Nerone. Lo stesso condottiero punico cadde sul campo. La sua testa decapitata venne in seguito lanciata nel campo di Annibale, il quale di fronte a quella macabra sorpresa constatò come ormai le sue possibilità di vittoria fossero ormai tramontate.

L’anno successivo (206 a.C.) Scipione assestò il colpo decisivo al dominio punico in Spagna sconfiggendo anche il più giovane dei Barcidi, Magone, nella battaglia di Ilipa, località corrispondente all’attuale Alcalá del Río non lontano da Siviglia. Prima di rientrare in Italia Cornelio Scipione compì un gesto molto importante fondando, a poche miglia da Ilipa il primo insediamento romano oltremare, il vicus di Italica, nel quale stanziò un nucleo di veterani comprendente i feriti e i malati. Si trattava del primo passo verso la romanizzazione della Spagna, una terra che tre secoli dopo avrebbe dato i natali a due fra i più grandi imperatori di Roma, Traiano e Adriano.
Rientrato a Roma, dove venne eletto console per l’anno 205, Scipione dichiarò la sua intenzione di portare la guerra sul suolo africano, eventualità che avrebbe a quel punto costretto Annibale a lasciare finalmente l’Italia per accorrere in aiuto della sua patria. Il Senato, sotto la pressione dell’ex dittatore Quinto Fabio Massimo era tuttavia contrario al piano di Scipione, che fu accusato dall’anziano Temporeggiatore di anteporre la propria gloria personale alla sicurezza della Res Publica e giudicando il piano del suo giovane rivale come un grosso azzardo. Al termine di un aspro dibattito si giunse così ad un compromesso: a Scipione fu assegnata la Sicilia e attribuita la facoltà di portare la guerra in Africa. Tuttavia, per la sua impresa avrebbe potuto fare affidamento soltanto sulle truppe di stanza nell’isola, oltre che, eventualmente, ai volontari che fosse riuscito ad ottenere dalle città dell’Italia.

Il contingente romano schierato in Sicilia era composto dalle cosiddette legioni “cannensi”, ossia dai superstiti delle forze sbaragliate a Canne da Annibale. Inquadrati in veri e propri battaglioni di punizione, questi soldati erano stati additati come codardi ed era stato loro vietato di tornare a Roma fintanto che Annibale fosse rimasto in Italia. A questi 15 mila soldati, di cui sapeva di poter sfruttare la sete di rivincita e il desiderio di riscatto sociale, Scipione mobilitando le sue clientele e sfruttando il consenso intorno alla sua persona, aggiunse i 7 mila volontari accordi entusiasticamente sotto le sue insegne dalle città etrusche umbre e laziali.
Nel 204 a.C., scaduto il mandato come console Scipione ottenne la nomina a proconsole poté continuare a preparare lo sbarco in Africa. Salpato finalmente da Lilybaeum (Marsala) con una flotta di 400 navi da carico scortata da 40 navi da guerra, Publio prese terra nei dintorni di Utica, dove ad attenderlo trovò Massinissa, il principe dei Numidi massili, accompagnato da 200 cavalieri berberi. A contrastare i romani Cartagine schierava due armate, una punica al comando di Asdrubale di Giscone, e una numida guidata da suo genero Siface, capo della tribù dei Massesili e in quel momento sovrano di tutta la Numidia. Scipione cercò in un primo tempo di conquistare Utica ma non vi riuscì e decise pertanto di accamparsi per l’inverno, facendo erigere i “Castra Cornelia”, l’accampamento fortificato dove passò l’inverno con il suo esercito. Durante la cattiva stagione Publio elaborò un audace piano per sbarazzarsi delle due armate nemiche.

Con la scusa di cercare un accordo per evitare una guerra, mandò all’accampamento di Siface una serie di ambascerie, facendo mescolare tra gli ambasciatori alcuni suoi esperti ufficiali che approfittarono delle visite per raccogliere dettagliate informazioni utili per l’attacco. Con l’arrivo della primavera, sentendosi pronto, Publio interruppe i negoziati e fece salpare le sue navi in direzione di Utica, come se avesse intenzione di assalire la città dal mare. Poi una notte inviò Lelio a Massinissa a incendiare il campo di Siface, mentre lui faceva lo stesso all’accampamento di Asdrubale. Quando punici e numidi uscirono terrorizzati dalle tende in cerca di campo trovarono ad accoglierli le spade romane e i giavellotti numidi, che abbatterono inesorabilmente quanti non avevano già trovato la morte tra le fiamme.

Sia Asdrubale che Siface riuscirono a salvarsi dal massacro, il primo riparando a Cartagine, l’altro rientrando in Numidia. Grazie a nuovi arruolati e all’arrivo di 4 mila mercenari dalla Spagna, nel giro di un mese, i comandanti punici ripresero le ostilità, ma vennero sconfitti ai Campi Magni, sul corso superiore del Bagradas, a centoventi chilometri a ovest di Utica. Solo grazie all’eroica resistenza dei Celtiberi i due riuscirono a mettersi nuovamente in salvo. Asdrubale ritornò nuovamente a Cartagine, mentre Siface fuggì verso i suoi territori ma, inseguito dalle truppe di Lelio e Massinissa, fu infine preso prigioniero. Massinissa fu allora acclamato sovrano di tutti i numidi.
Cartagine si trovava a questo punto come accaduto ai tempi di Agatocle e Attilio Regolo con un esercito ostile accampato a poche miglia dalle sue mura. Scipione dettò allora le condizioni di pace, tali da ridurre Cartagine allo stato di potenza di secondo rango. Esse prevedevano la rinuncia da parte punica di tutti i territori al di fuori dell’Africa, il riconoscimento della sovranità di Massinissa sulla Numidia, la consegna della flotta tranne 20 navi e il pagamento di un’indennità di guerra di 5 mila talenti. A ridare vigore in Cartagine al “partito della guerra” contribuì tuttavia il ritorno di Annibale in Africa. Dopo avere calcato, invitto, il suolo italico per ben quindici anni, nell’autunno del 203 a.C. il Barcide si imbarcò presso Crotone con al seguito i 15 mila veterani della sua armata. Prima di abbandonare per sempre la Penisola lasciò nel locale santuario di Era Lacinia una lunga iscrizione a ricordo delle proprie gesta. Congedandosi dall’Italia Annibale con ogni probabilità dovette amaramente constatare che erano trascorsi meno di due anni dallo sbarco di Scipione e già la sua patria ne invocava disperatamente il ritorno mentre a lui non erano bastati tre lustri in Italia per piegare Roma.

Sbarcato ad Hadrumetum, nella Byzacena, dove si trovava la tenuta di famiglia, Annibale iniziò a preparare la sua armata per quella che era indubbiamente l’impresa più ardua di tutta la sua carriera di generale. Ai veterani d’Italia aggiunse gli 11 mila mercenari reclutati dal defunto fratello Magone e altri 10 mila coscritti tra libici e cittadini di Cartagine. In tutto Annibale disponeva di 36 mila fanti, 4 mila cavalieri e 80 elefanti. Di fronte a lui c’era un esercito, quello romano, certamente meno numeroso ma qualitativamente superiore e per di più col morale alle stelle per le recenti vittorie. Inoltre, per la prima volta, l’armata punica si trovava in inferiorità rispetto al nemico per quanto riguardava la cavalleria, che era stata l’asso nella manica di tutte le vittorie annibaliche.
L’interruzione delle trattative di pace non dovette in ogni caso dispiacere troppo a Scipione, il quale anelava da tempo a scontrarsi con Annibale in campo aperto. Era certo peraltro che l’ormai prossimo scontro tra l’allievo e il maestro sarebbe stata l’ultimo di questa guerra, in quanto Cartagine non aveva più né i mezzi né la volontà di proseguire le ostilità. Una sconfitta romana avrebbe magari potuto mitigare i termini della pace ma di certo non avrebbe potuto restituire a Cartagine l’impero perduto.

La battaglia fu preceduta da un incontro a quattr’occhi tra i due comandanti. Fu Annibale, che aveva richiesto quel colloquio, a prendere per primo la parola, ammonendo il giovane rivale della mutevolezza del destino e invitandolo alla prudenza. Scipione ribadì tuttavia le proprie condizioni di pace, tali da far apparire ad Annibale comunque preferibile il rischio di uno scontro. L’ultima battaglia della seconda guerra punica si tenne il 19 ottobre del 202 a.C. sul campo di Nagarrara, presso Zama.

Sul campo di battaglia, scelto da Scipione, Annibale dispose gli elefanti in linea avanzata. Dietro di loro pose in prima fila i mercenari di Magone, in seconda la fanteria africana e da ultimo, in posizione più arretrata, la riserva costituita dai veterani d’Italia. Sulle ali pose i reparti montati, punici a destra e numidi a sinistra.
Scipione gli oppose al centro la fanteria legionaria schierata secondi la classica disposizione con gli hastati in prima fila, seguiti dai principes e dai triarii. Il comandante romano tuttavia dispose i manipoli non a scacchiera ma in colonna, creando così dei corridoi in cui incanalare la carica degli elefanti. Completavano lo schieramento due ali di cavalleria, a destra quella numida di Massinissa e a sinistra quella italica di Caio Lelio. Lo scontro ebbe inizio con l’attacco degli elefanti ma il fracasso delle trombe e dei forni romani e i giavellotti dei veliti terrorizzarono i pachidermi che finirono per defluire nei corridoi appositamente aperti tra i manipoli, uscendo dal campo di battaglia. Quasi contemporaneamente le cavallerie di Scipione attaccarono quelle di Annibale, mettendole in rotta e dando inizio all’inseguimento.

L’armata cartaginese, rimasta coi fianchi scoperti, pareva esposta alle manovre di aggiramento dei romani. Gli hastati aggredirono la prima linea di Annibale che non resse a lungo allo scontro, e arretrando fra le seconde file. Gli hastati di Scipione erano affaticati, ma l’arrivo dei principes diede nuova linfa all’attacco romano che portò alla rotta della seconda linea punica. A quel punto Scipione tentò di mettere in atto la manovra già sperimentata con successo ai Campi Magni facendo avanzare sui fianchi degli hastati i manipoli dei principes e dei triarii allo scopo di circondare il nemico ma ad attenderlo c’era i veterani d’Italia con alle ali i superstiti delle prime due linee cartaginesi a formare un fronte più ampio del suo. Quella vecchia volpe di Annibale era riuscito a rivolgere contro Scipione la sua stessa manovra! Per evitare di essere a sua volta avviluppato dal nemico, il proconsolare fu costretto allora ad assottigliare il suo schieramento. I vinti di Canne tennero durò fino all’ultimo finché all’orizzonte non si profilarono le cavallerie di Lelio e Massinissa che presero i punici alle spalle. I veterani di Annibale si batterono come leoni cadendo a migliaia con le armi in pugno ma la vittoria arrise all’esercito di Roma.
Zama rappresentò l’ultimo capolavoro di Annibale, il quale, pur battuto, inflisse al rivale una magistrale lezione di tattica giungendo a sfiorare la vittoria. Similmente a quanto accaduto in un’altra battaglia, combattuta duemila anni dopo nella pianura belga di Waterloo, a Zama emerse la superiore abilità del vinto ma come Napoleone anche Annibale non poté evitare la sconfitta.

A seguito della disfatta lo stesso Annibale, che più di ogni altro aveva voluto la guerra, si risolse ad accettare come il male minore la stipulazione di una pace i cui termini non potevano che essere durissimi. Cartagine dovette restituire a Roma prigionieri e disertori, consegnare tutti gli elefanti e l’intera flotta tranne dieci navi. Le era poi fatto divieto di muovere guerra senza il previo assenso di Roma. Per quanto riguarda le amputazioni territoriali, lo stato punico doveva rinunciare a tutti i propri possedimenti nel Mediterraneo mentre in Africa fu obbligata a riconoscere Massinissa come sovrano della Numidia e a restituirgli quei territori che erano stati dei suoi antenati. Cartagine doveva inoltre versare a Roma un’indennità di guerra pari alla straordinaria somma di 10 mila talenti d’argento, da corrispondere nel corso dei successivi cinquant’anni. A garanzia del rispetto delle clausole del trattato di pace, fu ingiunto alla città punica l’invio a Roma di cento ostaggi scelti fra i rampolli dell’aristocrazia punica. Era la fine di Cartagine come potenza mediterranea.
Bibliografia:
Fonti storiografiche antiche:
- Tito Livio, Ab Urbe condita
- Polibio, Storie
Fonti storiografiche moderne:
- G. Brizzi, Storia di Roma – Dalle origini ad Azio
- G. Brizzi, Scipione e Annibale, la guerra per salvare Roma
- A. Frediani, Le grandi guerre di Roma